Tadeusz Ró?ewicz (Radomsko, 1922 - Breslavia, 2014) è stato un poeta, drammaturgo e scrittore polacco. Assieme a Mi?osz, Herbert e Szymborska è annoverato tra le più alte voci della poesia polacca del Novecento. La sua generazione, nata all'indomani della Grande Guerra, assistette al caotico ridisegnarsi della carta politica dell'Europa, all'angosciante avvento del nazismo, al terrore del secondo conflitto mondiale e al successivo calare sul continente della cortina di ferro. Come il fratello Janusz (anch'egli promettente poeta, ucciso dalla Gestapo nel 1944) fu membro dell'Armia Krajowa, il più importante movimento della Resistenza polacca durante l'occupazione tedesca. Iniziò gli studi – poi interrotti – di storia dell'arte all'Università Jagellonica di Cracovia. Si trasferì in seguito a Gliwice, per poi stabilirsi definitivamente a Breslavia nel 1968. Il debutto poetico risale agli anni '40 con la raccolta Echa le?ne (Gli echi del bosco, 1944), seguita da Niepokój (Inquietudine, 1947), Czerwona r?kawiczka (Il guanto rosso, 1948), Pi?? poematów (Cinque poemi, 1950) e Czas, który idzie (Tempo che viene, 1951). Le sue prime opere riflettono il tentativo di recuperare una dimensione sociale dopo il trauma della guerra, vissuta come catastrofe di ogni sistema morale e tradizione culturale.Più calate nel mondo contemporaneo sono le successive raccolte, tra cui spiccano Wiersze i obrazy (Poesie e immagini, 1952), Równina (La pianura, 1954), Poemat otwarty (Poema aperto, 1956) e Formy (Forme, 1958).Fra le opere seguenti ricordiamo Rozmowa z ksi?ciem (Conversazione con il principe, 1960), Zielona ró?a (La rosa verde, 1961), Twarz (Il volto, 1964) e, in tempi più recenti, P?askorze?ba (Bassorilievo, 1991), Szara strefa (La zona grigia, 2002) e Wyj?cie (La via d'uscita, 2004).Ró?ewicz fu anche autore di narrativa, con raccolte di racconti quali Przerwany egzamin (L'esame interrotto, 1960) e Wycieczka do muzeum (Gita al museo, 1966), ma soprattutto drammaturgo dal carattere profondamente innovativo, improntato agli stilemi del teatro dell'assurdo. La sua maggiore opera, Kartoteka (Cartoteca, 1960), influenzò fortemente il panorama teatrale polacco.Insignito di importanti premi letterari, Ró?ewicz si distingue per la rarefazione della parola, la mimesi del linguaggio colloquiale, lo sguardo ironico sui temi "alti" dell'esistenza, il rifiuto della poesia come abbellimento.Una silloge della sua copiosa produzione poetica è stata pubblicata, nella traduzione italiana di Silvano De Fanti, col titolo Le parole sgomente. Poesie 1947-2004 (Pesaro, Metauro, 2007).

DA ATELIER 77 – intervista ad Alberto Bertoni

BERTONI 2

 

 

ATELIER 77

 

Da Atelier 77

Intervista ad Alberto Bertoni, La formazione del poeta: dialogo attorno a Traversate (Firenze, SEF, 2014)

di Luca Ariano e Guido Mattia Gallerani

(estratto)

 

 

 

G.M.G. Paolo Valesio ti riconosce, nella prefazione a Traversate, una capacità unica di equilibrio tra la tua attività critica e quella poetica. Da dove viene? Quale il tuo percorso di formazione che ha messo in comune critica e poesia?  Aggiungo un altro elemento di riflessione. La formazione del poeta di oggi non sembra potere definirsi in quanto apprendistato solitario. Le possibilità di condivisione e comunione d’intenti sono incredibilmente aumentate rispetto al passato grazie tanto a nuovi strumenti di comunicazione e di divulgazione quanto alla presenza ancora piuttosto forte di momenti d’incontro pubblico. Mi chiedo allora quanto senso ancora abbia la riflessione ponderata sul fare poesia, a fronte di una tale esibizione di partecipazione sociale.

A.B. Ringrazio senz’altro Paolo Valesio per il suo riconoscimento, tuttavia devo anche ammettere – in parallelo – che questo equilibrio fra
la scrittura critica e quella poetica è il frutto di un apprendistato lunghissimo e di un lavoro interiore che mi hanno scavato e stancato più di ogni altro impegno fisico o intellettuale intrapreso nella mia vita. Quando sono approdato all’Università, da implume e un po’ ingenua matricola, nel novembre del ’74, scrivevo già poesie ed ebbi il coraggio di farle leggere in giro, dialogando soprattutto con un altro coetaneo morto troppo giovane, Paolo Bollini, e approfittando dei seminari “militanti” che Luciano Anceschi aveva affidato a qualche suo assistente (il più giustamente duro nei confronti di quei versi fu l’intelligentissimo e purtroppo altrettanto pigro Alessandro Serra). Mi accorsi subito di suscitare anche un po’ di compatimento, le mie poesie erano a metterla bene montaliane – fra la Bufera e Satura – ma soprattutto scadenti: non c’era abbastanza vissuto, perché della politica preponderante diffidavo già allora, di psicoanalisi non sapevo nulla, non mi ero mai innamorato davvero né avevo elaborato alcun lutto. Del mondo e del tragitto umano al suo interno, in una parola, non avevo la minima cognizione, chiuso in una famiglia troppo protettiva, in una Modena molto provinciale, in un vizio/passione che non potevo certo condividere con alcuna cerchia intellettuale, le corse dei cavalli. Ma, il giorno prima delle vacanze di Natale di quel 1974, irruppe dalla California il professore di Letteratura italiana, Ezio Raimondi. Quel giorno, quei tre quarti d’ora di lezione introduttiva, quell’impeto conoscitivo sconvolsero, mandarono in frantumi e poi riedificarono a partire dalle fondamenta tutta la mia vita interiore, intellettuale, perfino sentimentale: certo non tramite Raimondi (la mia
eterosessualità è a prova di bomba), ma grazie a una compagna di studi con la quale – aprés le déluge – ho  continuato negli anni a dialogare. E fu proprio da allora, senza esserne neppure consapevole, che la passione per la critica divenne centrale nella mia vita, del tutto in linea con lo spirito del tempo, fra la morte tragica di Pasolini e il Settantasette imminente: tanto che, il giorno dei funerali di Francesco Lorusso, più o meno in coincidenza con il mio ventiduesimo compleanno, ho preso il cassetto in cui conservavo i manoscritti poetici e l’ho gettato nella spazzatura, con un gesto luttuoso e catartico di cui non mi sono mai pentito. Il fuoco della poesia soprattutto da leggere ma un pochino anche da scrivere, però, ha continuato negli anni successivi a covare sotto la cenere, trovando una convivenza spesso difficile con le teorie, le pedagogie e le pratiche critiche. A Raimondi nascondevo meglio che potevo le mie scritture poetiche, finché – davanti al mio primo vero libro di versi, Lettere stagionali, del ’96 – lui uscì con una definizione che fotografa meglio di ogni altra la mia poesia: “lettere metafisiche senza aldilà”. L’assurdità della separatezza fra le due attività, però, ho cominciato a percepirla solo qualche anno dopo, nel 2003, grazie a un altro maestro come Raffaele Crovi, che amava i miei versi e mi tirò fuori per Aragno un libro in cui anche adesso mi riconosco molto (perfino nel titolo), Le cose dopo. Oggi non ho difficoltà a far incontrare e talvolta a coincidere i due piani, tranne che nelle aule universitarie, dove non parlo mai della mia attività poetica durante le lezioni: e se qualche studente mi provoca in proposito, glisso più o meno elegantemente. La mia persuasione di oggi, però, è che si scriva troppa poesia e che la critica della poesia, invece, abbia visto esponenzialmente restringersi i propri spazi di edizione e di ascolto. Oggi c’è un bisogno di critica molto superiore al bisogno di scrittura poetica in prima persona.
(…)
Aggiungo, come consiglio prioritario ai giovani, di frequentare altri poeti coetanei e di imparare a leggersi reciprocamente: quello di non conoscersi fra autori e autrici finitimi, è uno dei limiti più gravi dell’arte contemporanea. E scrivere in proprio va bene solo se, per ogni nuova poesia che si compone e ci si propone di pubblicare, se ne leggono – per puro esercizio spirituale – almeno altre dieci di altri autori e altre autrici, di età, provenienze e lingue diverse dalla propria: considerando infine che scrivere poesia ha senso solo se in quell’atto ci si mette fino in fondo in gioco, a nudo, alla prova.

 

 

 

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955. È autore dei libri di poesia: «Lettere stagionali» (1996, nota di Giovanni Giudici); «Tatì» (1999, omaggio in versi di Gianni D’Elia); «Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000» (2000, intervento di Roberto Barbolini); «Le cose dopo» (2003, postfazione di Andrea Battistini); «Ho visto perdere Varenne» (2006, prefazione di Niva Lorenzini); «Ricordi di Alzheimer» (2008 e 2012, con una lettera in versi pavanesi di Francesco Guccini); «Recordare» (2011, con Roberto Alperoli ed Emilio Rentocchini, prefazione di Marco Santagata); e «Il letto vuoto» (2012).

 

Fotografia dell’autore tratta da Caffè Letterario