A volte invidio gli alberi,
il loro spazio chiuso,
il loro ciclo eterno e sempre uguale.
Le gemme chiuse, a marzo
e, dopo, l’esplosione
di mille dita aperte
che bevono la luce.
La lenta espoliazione dell’autunno…
Invidio il tramutarsi in pali nudi,
in crocifissi così asciutti e duri
che manco il vento li può dondolare,
passando schietto e gelido tra i rami;
e li diresti morti, se non fosse
che al primo soffio della primavera
ritornano a spurgare linfa e vita
Sì, a volte invidio gli alberi
e il loro sottostare
a regole precise.
Invidio il loro stare radicati
per sempre al proprio grembo,
come la gente semplice.
Come tutti coloro che, di norma,
là dove sono nati, moriranno.
Perché non ci sarà nemmeno un giorno
in cui si scorderanno
da dove sono emersi e dove infine
si disferanno.
Invidio, soprattutto
il loro essere parte,
il rendersi vassalli e disponibili
a ciò che li circonda;
al gioco a rubamazzo
delle stagioni messe intorno a un tavolo,
come gli anziani al Circolo.
Invidio, infine, il loro
destino circolare e necessario,
una coscienza appena addormentata,
l’inerzia sopra un’orbita
che, un anno dopo l’altro, è sempre uguale.