Beppe Salvia, Cuore (a c. di Sabrina Stroppa), InternoPoesia 2021 – Anteprima editoriale

Beppe Salvia nasce nel 1954 a Potenza. Nel 1972 si trasferisce a Roma con la madre e il fratello, cambiando spesso casa e alternando la vita romana con alcuni viaggi in Sicilia. Inizia a pubblicare poesie in rivista nel 1976 (su «Lettera» e «Nuovi Argomenti»), diventando ben presto protagonista di quel clima vivace e alternativo animato nella capitale da poeti e pittori suoi coetanei. Frequenta i laboratori di poesia di Elio Pagliarani, occasione fondamentale per i giovani poeti sul volgere degli anni Settanta. Fonda nel novembre 1980 la rivista “Braci” insieme a Claudio Damiani, Giuseppe Salvatori, Arnaldo Colasanti e Gino Scartaghiande, ma allo stesso tempo, fin dall’ottobre del 1980, pubblica sulla rivista “Prato pagano” di Gabriella Sica le sue Lettere musive e partecipa a riunioni redazionali. In entrambe le riviste vengono pubblicate sue sillogi poetiche o ‘corone di sonetti’, che si distinguono subito per la spiccata individualità, alternante elegia e tragedia. Muore tragicamente il 6 aprile 1985. Alcuni degli amici più stretti ne ricordano la figura, qualche giorno dopo, sulla pagina culturale del «Paese sera», dando inizio a una sua tenace leggenda che in tempi recenti si è nutrita di studi e pubblicazioni di taglio anche accademico. Nel 1985, dopo l’improvvisa scomparsa, esce subito il suo primo libro, Estate, con lo pseudonimo di Elisa Sansovino, nei “Quaderni di Prato pagano”. Alla fine del 1987, presso Rotundo, esce Cuore (cieli celesti); nel 1989, nelle Edizioni romane della Cometa, il diario poetico Elemosine eleusine.

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da Cuore (Interno Poesia, 2021), a cura di Sabrina Stroppa

come di stelle non sofferte cielo
lieve e corrusco d’ombre e di neve,
a me svelato a me non detto, chiaro
regno dei giorni, vero, e che non ha
saper d’inganno, umile perduto –
tal mi sapevo e non son ora
mutato se il corpo m’innamora la
mano mi dispone disegno dolo
d’un nome, e non so io seguitare
la mia vita che la vera somigli
altra vera, e se d’archi vane onde
ove sofferta vaghi d’ombra, e ombra,
ansia del nome il doloroso lido
d’acque alla cieca l’animo tentando.

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A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

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C’è chi, al contrario di me, non dispera,
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e le pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.