Beloslava Dimitrova – “La natura selvaggia” (lettura di Alessio Alessandrini)

beloslava dimitrova la natura selvaggia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Beloslava Dimitrova, La Natura Selvaggia, Osimo, Arcipelago itaca Edizioni, 2017

 

CONSIDERAZIONI SU LA NATURA SELVAGGIA DI BELOSLAVA DIMITROVA
lettura di Alessio Alessandrini

La Natura Selvaggia di Beloslava Dimitrova nella traduzione di Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini per le edizioni Arcipelago Itaca è una raccolta poetica d’impatto, innovativa e intensa che mette a dura prova il lettore in quanto lo fa precipitare, dal primo all’ultimo testo, in un vortice di energia in molti passaggi lascia senza fiato.

Il macrotesto prevede una lunga sequenza a cui fanno da appendice sei testi conclusivi, nella prefazione Danilo Mandolini avvisa il lettore che si tratta di inediti che pur rappresentando la naturale prosecuzione della raccolta non sono nati per farne parte, eppure al sottoscritto appaiono quali testi fondamentali per comprendere appieno il senso della stessa nella sua totalità e complessità.

Si arriva a questa parte finale – occorre confessarlo – estenuati, sfiniti, sfibrati, lacerati da una sequenza spasmodica di immagini e suoni dalla forte impronta espressionista, eppure non ci si può non soffermare su quei versi “postumi”, per così dire, perché in essi si ritrova svelato non solo il senso di quanto si è già letto, ma c’è dato conoscere anche l’antidoto per non cedere alla tanta tossicità che ci ha accompagnato per tutte le pagine precedenti, lasciandoci addosso una fiacchezza difficilmente sanabile.

Qui siamo in un piano più intimo, più colloquiale, apparentemente dismesso e sussurrato; alle urla si è sostituito un salmodiare discreto tipico della confessione e quella forza d’urto che ci ha trascinato per tutta la silloge de La Natura Selvaggia si stempera come a lasciare i resti, gli avanzi, di un lento e inesorabile pasto totemico.

Chi scrive sa di aver combattuto una lotta impossibile, sa che è da delle “rovine” che parlerà, sa che l’amore è stato chiuso a chiave e che ormai è inevitabilmente solo, (<< A Roma ognuno dovrebbe essere solo>>, si legge nei versi finali della bellissima lirica intitolata “Mi sono ricordata di nuovo la fine“), eppure non cede alla disperazione ma guarda con insistenza verso l’unica salvezza ancora a disposizione, vede nella nuova possibile partogenesi il tentativo di ricominciare per sé e per l’altro:

Allora li ho visti come correvano, come si salvavano
come gli istinti si sono svegliari
ho guardato nel profondo con insistenza
ho dimostrato coraggio mi sono presa per il collo
qualcosa ho cominciato a comprendere

Ho visto una barca in cui hanno messo un bambino
e la madre ha spinto la barca
Ero io quel bambino?
Eri tu quel bambino?

(da Mi addentro, pag. 66)

Ecco tutta la raccolta di Beloslava Dimitrova si muove sull’equilibrio precario di questa rinascita, tra la possibilità di salvezza e il rischio di non farcela. Si tratta di una contrastante e antitetico movimento ma è quello che dà origine a tutto il suo pensiero poetico. Parlavamo inizialmente di un vortice, non a caso in La natura selvaggia va in scena il mirabile e terrificante spettacolo delle forze creatrici e distruttive che sostengono ogni esistenza che, così facendo, non può che rivelarsi resistenza.

Se dovessimo utilizzare una terminologia appropriata dovremmo ricorrere al dizionario della geologia e parlare di forze endogene – tettoniche, laviche, magmatiche – che sconvolgono le pagine di Beloslava Dimitrova al pari di quelle esogene – di erosione, di annientamento, di cancellazione. Tra una tensione sorgiva e una distruttiva matura, infatti, il verso della giovane poetessa bulgara; un verso sfrontato, tossico, famelico, velenoso e bellissimo allo stesso tempo, che cresce e divora nella sua ansia propulsiva:

assimilo il tuo unico odore attraverso il veleno
stringo i denti per il riflesso anche quando
sono morta
non è bello che di tutto questo mai
tu non possa dubitare

(da Rettile, pag. 30)

L’ambiente, l’Umwelten – si legga la lirica I Coyotes, pag. 33 – è quello da scenario post-atomico, apocalittico, con una minaccia di estinzione sempre imminente; una distruzione che si profila nella duplice dimensione, quella domestica (la famiglia, l’amore coniugale) e quella cosmica (il mondo, l’umanità, Dio); un destino fallimentare, infatti, accomuna tutte le specie:

ci raggeliamo
io le altre persone
uccelli e animali

… (pag. 11)

Non è una casualità la presenza continua di rimandi al mondo del ferino, dell’animalesco; essa percorre tutto il libro in un susseguirsi di zoomorfiche descrizioni dove l’elemento umano, visto nei suoi molteplici aspetti degradati, viene metaforizzato dal riferimento alla realtà bestiale; su tutti si leggano i seguenti versi esemplificativi tratti dalla lirica “Orca“:

volevo dirti
che io sono come quelle orche
nelle piscine che fanno acrobazie
con i loro istruttori
e la musica
piroetta dopo piroetta avanti indietro
giro spinta tuffo
presentazione del muso
le fauci aperte per il pesce
sì, questa sono io
il torso enorme
tu mi accarezzi tu mi tolleri
un’infinità di palloncini nell’acqua
la mia giovinezza e il mio nonsenso
la voglia di dimostrare la mia abilità
il credere che sarò sazia
il perdere della natura           

(pag. 25)

Il richiamo al mondo animale reca con sé, quasi di conseguenza, due linee contigue di ricerca che caratterizzano la poetica di Beloslava Dimitrova, ovvero il rimando ossessivo al campo semantico del cibo e una struttura pseudo favolistico-fiabesca.

Verbi quali: divorare, mangiare, rosicchiare, inghiottire, assaggiare, mordere, ingoiare, assimilare; sostantivi come cibo, resti, fame e aggettivi correlati come famelico, intessono una refe trasparente che ha come tema ossessivo e ossesso quello della fagogitazione. E’ il tema doppio della preda e del predatore (cfr poesia pag. 38), deterministica situazione della lotta alla sopravvivenza:

mi hai fatto andare in bestia
mangiavamo insieme
andavamo a caccia cercavamo
le nostre vittime preferite
altri primati
ci somigliavamo così tanto
imparavamo tutte le lezioni
poi abbiamo perso il territorio
tu mi hai tradito
ormai non puoi più essere mio amico
ora dovrò mangiarti
così tornerai ad essere una parte di me

(da Scimpanzé, pag. 28)

Queste occorrenze svelano una situazione di voracità deleteria e distruttiva. La lotta si diceva, non può non passare per questa infausta catena alimentare e per un deterministico gioco di istinti.

Per altro verso originale è il rimando a narrazioni liriche assimilabili a quelle della favola, del fiabesco; una narrazione, però, rivisitata in chiave gotica, senza lieto fine, semmai con una propensione al tragico, al nero. A tal proposito possono essere sufficienti le letture di testi come: Sciocchi, In due, Due, il già citato Orca, I coyotes e Drago di Komodo:

alcuni minuti dopo
mi volto guardo
il sedile a sinistra
quando tutto è finito
quello seduto lì
non è più nemmeno
mio padre

(da
Sciocchi, pag. 14)

 D’altronde molte pagine di Beloslava Dimitrova hanno la straripante forma della mitologia cosmogonica e la dimensione fiabesca ben si sposa con le titaniche immagini che ne derivano. La Natura Selvaggia ci prepara a riti iniziatici, a nuovi battesimi, a ipotetiche rigenerazioni, sempre in bilico tra un vitalismo eccessivo e una mortalità incombente, tra morbosità e santità:

<< Noi abbiamo due cuori
uno buono e uno maligno>>

predatore spietato
allo stesso tempo distaccato e partecipe
non ricordi che te l’ho ripetuto
ormai diverse volte                     

(pag. 50)

Una natura doppia, schizofrenica, astigmatica, sottende queste liriche dalla carica erotica potente proprio perché sempre affacciate nel verso della morte. Spesso i piani in cui giocano le forze in campo risultano sfalsati: l’umanità di confonde con il divino: né con te né con Dio, (Natura #3, pag. 17); l’individualità si perde nel collettivo: ci muoviamo insieme (Gregge, pag. 35).

Molti testi, di fatto, raccontano una relazione sofferente e una complicità negata, l’esperienza dello stare insieme, della coppia, appare costantemente lacerata e l’unione è spesso solo ipocrita accostamento di corpi affacciati sul baratro della solitudine, sull’inequivocabile spettro della incomunicabilità, preambolo della morte e della malattia: ormai non esisto più né esiste l’uomo accanto a me (Gatto, pag. 32).

Tra il desiderio della rinascita e la confessione del suicidio si gioca tutta la battaglia selvaggia di Beloslava Dimitrova, nella costante tensione a non cedere al fallimento, alla rovina, al vuoto quant’anche tutto sia vuoto, rovina, fallimento, poiché, in fondo, resta sempre un flebile ma significativo e vitale desiderio di creare ancora una vita oltre quella tremenda e terrena di cui si possono vedere i resti:

allora io decido con tutta
la mia stoltezza e abnegazione eterna
di creargli di nuovo un occhio
possiamo farlo vero lo faccio

(da Vita oltre la terra, pag. 52)

La natura selvaggia di Beloslava Dimitrova alla fine si rivela per quella che paradossalmente non avremo mai creduto potesse essere, non già un nichilistico requiem senza speme al mondo morente, non un amen al piccolo atomo del male che è l’uomo, piuttosto un ulteriore, ultimo tentativo di recuperare il sacro, perché la sua natura divina offra a questo universo in cerca di se stesso “altre strade per far quadrare i propri conti” (Vita oltre la terra #2, pag. 55).

Una ricerca furibonda e senza requie che ha un solo antidoto, una sola formula, quella della poesia, intesa nel senso più proprio e originario, di colei che fa, che crea, o meglio ri-crea, crea di nuovo:

Farò del mio seno un utero

Da esso nascerai tu
mio bambino non nato
Ti aspetterò perché tu possa salvarmi
o per morire insieme
Ti chiamerò poesia!

(da Seno (Lullaby), pag 64)