Giulio Maffii – Atletico sull’Atlantico – Anteprima editoriale (Marco Saya Edizioni, 2022)

Nota a cura di Gisella Blanco

 

“Pensa a qualcosa ti prego fallo” è una delle prime citazioni dell’ultima opera di Giulio Maffii, Atletico sull’Atlantico (Marco Saya 2022) ma l’autore non ricorda chi l’ha scritta, perché di un testo non è sempre importante tenere a mente i dettagli ma quella tensione furiosa che continua a tirare la coscienza anche oltre la sorveglianza della memoria.

In “Altitudine quasi zero” (titolo della prima sezione), si inizia con l’atto di uscire, che è azione di moto e posa di estroflessione, volontà di abbandonare qualcosa, qualche dove, per qualcos’altro, per qualche altro luogo di sé, della società. È uno slancio di precarietà verso la stessa precarietà che è, anche e soprattutto, libertà: “Ecco è uscito/intanto legge cartelli targhe campanelli/Poi si abitua al centro/allo svasamento acustico”. L’ipotesi di crasi sinestetica delle percezioni si unisce all’assenza di punteggiatura, tipica di Maffii, per dare un immediato impatto stordente alla lettura.

La direzione verso il centro è sempre misteriosa, riporta al senso del nucleo che esiste ma si nasconde, produce uno slabbramento dell’individualità in una necessaria e minacciosa eterodossia. Tra nominazioni oggettuali e allitterazioni, intanto, si esce dal silenzio, si entra nel non luogo della parola.

La città è l’avamposto del corpo, si incarna come un Cristo che si è finalmente strappato i chiodi ed è sceso dalla croce. Strade, incroci, semafori, palazzi – che si leggano o non si leggano tra i versi – sono le gambe, le dita (sulla cui punta si nasconde qualcuno, chissà chi), sono la metrica del traffico antropologico che conduce al caffè. Sono perfino quel pensiero martellante che inquieta “la glorificazione degli inetti”, ma solo “raramente negli aspetti diurni”. Di notte, si sa, è tutto più chiaro.

Segue un’invettiva sull’uso o abuso della parola, sulla funzione di parità a cui la parola illude, tra poetica della finzione e politica della realtà: “Sentiteli tutti/si scambiano parole pensando di avere lo stesso diritto/che ogni parola lo stesso valore”.

Un calembour (“allòro” invece che “a loro”) appare – nel concetto e non solo nel suono – come una viva polemica a chi, proprio con la parola, si pone in una posizione di illegittima prevalenza rispetto agli altri.

Il terreno espressivo, però, è un burrone, una foiba (e, qui, etica e politica si riuniscono), un crollo rovinoso (eppure forse salvifico). Ma la metrica? Che funzione ha la metrica nella vita delle persone?

L’adulazione è uno dei mali della contemporaneità: ecco che il verso diventa provocatorio, raccoglie immagini sociali sconvolgenti e simboliche (teste mozzate buone per giocare a calcio, come negli scenari apocalittici delle terre più devastate), oggetti che riportano l’epica biblica alla volgarità della violenza quotidiana (“Ai chiodi ai chiodi/poi zanzare tanfi/cherosene/magari bruciasse tutto”) e ipotesi di sopravvivenza (“però i libri no/- insomma -/bruciamo i premi i nomi”). Nella liturgia della sopravvivenza, d’altronde, bisogna scegliere cosa conservare e a cosa rinunciare.

È nei “luoghi comuni” che le armi giacciono minacciose, ad esempio negli scaffali, proprio come le parole affondano nei versi e il capitalismo nella biologia umana.

Tra linguaggio e campo di battaglia, tra “forme esplose” e desinenze da unire, l’annoiabilità dell’uomo contemporaneo si può nominare ma non è credibile: “e già il limite della noia/è sabotato circonciso/sbattezzato e rimandato/al mittente inesistente”. Nelle scelte semantiche si rinvengono i ruderi dei costrutti ideologici post-religiosi (“sbattezzato”, “circonciso”) che hanno sempre a che vedere con tradizioni di sopravvivenza sociale o empirica ma compaiono decontestualizzati, quasi fittizi o posticci: “poco o niente ci sopravviverà”. Ma la metrica?

Il viaggio è ancora una esperienza possibile, costringe a un accumulo interiore di mappe (e qui si palesa un ironico collegamento tra la coscienza umana e i dispositivi di geolocalizzazione) i cui luoghi tracciati, forse, non esistono, e continueranno a non esistere – ma a rappresentare la possibilità di esistere – nel loro sedimentarsi tra la memoria e l’abitudine: “tu cammini esplori vedi con le mappe sulla schiena e pensi che non esistano e le lasci nello zaino per anni a venire”.

La decostruzione della realtà è ben descritta con l’immagine della frantumazione di uno specchio che non ne sancisce la rottura ma la parcellizzazione della sua funzione: ciò che si fa in pezzi, continua a esistere e a funzionare in una modalità diversa a rischio, però, di ferire chi lo maneggia, “oppure fingi l’impatto e togli il senso”.

L’operazione di sottrazione del superfluo incide sull’economia esistenziale e, se non giunge all’azzeramento di ogni cosa, rinvigorisce ciò che è necessario. Ogni segmento del reale è un inizio, un nuovo punto di partenza: nella confusione dell’impossibilità di arrivare risiede il brivido dell’infinito ricominciare.

Nei versi di Maffii si assiste a ricorrenti slittamenti di piani percettivi, come se piano interiore e piano empirico si allineassero in uno stesso, improbabile equilibrio: “ai lati opachi degli occhi mondi insolubili velocità inconsistenza”.

L’apparizione di un oggetto come un lavabo – e per apparizione si deve intendere il riconoscimento improvviso, da parte dell’io, di un oggetto che rimaneva invisibile perché ammantato dalla banalità della routine- fa da contraltare alla soggettività e alla sua stessa, intermittente assenza: “Non credo abbia importanza dire esattamente/mi inorgoglisce il senso della perdita vedere dove finisce/quindi il suo controsenso/Il centro del lavabo appare/è sempre stato lì”. Infatti, “qualcos’altro gli assomiglia /- totalmente differente –“: le similitudini nella congerie della molteplicità ontologica occorrono ma non soccorrono.

La poetica sulla scrittura si affranca dai manierismi – nella forma come nella significazione – e affronta il baratro della sovrabbondanza di scritture, dell’uniformazione degli stili, dell’importanza dello spazio bianco e della necessità del non detto come controtendenza all’inondazione di parole. “il tuffatore è nell’attimo preciso/in cui si stacca”: lo stesso vale per lo scrittore e il suo silenzio.

L’assenza di suono, il bianco come rumore dell’esistenza, è simile alla dimensione onirica (“significato” e “sognificato”), riformula l’origine e la fine in cui ritrovare nuovi sensi, nuovi istinti.

Lo scarto, la distruzione, l’incendio, l’azzeramento di una qualsiasi categoria umana o oggettuale, pone davanti alla possibilità di ricostruzione la cui coerenza è una linea d’equilibrio generale: “poi usi una livella/e le cose si stabilizzano nella linea in fondo”.

L’impossibilità di essere qualcosa di dissimile da sé acquisisce concretezza nella relazione con l’altro. Ecco che l’allocuzione verso un interlocutore si approssima a un dialogo interiore che accoglie il dramma e lo libera nell’indefinitezza, presente in quel verbo assente che funge da chiave di volta del discorso: “tu persisti ed io mi/forse/se non fosse ulteriore tempo perso”.

I versi di Maffii sono liberi nel senso più puro e meno accademico possibile, cioè non si lasciano inquadrare in scuole o linee o precisi partiti poetici: benché sia facile pensare, come ascendenti di questi testi, alla poesia di ricerca e allo sperimentalismo, l’autore sfugge persino dalle informità più contemporanee per seguire, con semplicità e immediatezza, il proprio flusso etico-espressivo. Sembra quasi una auto didascalia autoriale di cui il lettore può, più o meno deliberatamente, appropriarsi poiché è dotata di una malleabilità che può informarla senza deformarla. È qui una delle caratteristiche di maggiore pregio contemporaneo della scrittura: la possibilità di inerire la pluralità pur mantenendo la propria singolarità.

C’è qualcosa dell’uomo, della sua precarietà, delle sue ossessioni, delle sue abitudini, nelle cose che sembrano da lui tanto dissimili: un ragno, un complemento grammaticale o reale, una copia di qualcosa, le nuvole, le case, le frasi. Non si tratta di allegorie (“Non capisco – capite? – le allegorie/nutro disinteresse/[antipatia-indifferenza]”) bensì di suggestioni profetiche, di presagi che precedono e svolgono il funzionamento della mente e dell’emozionalità umana, una sorta di pre-sintassi dell’esperienza.

La seconda sezione dal titolo “Coproesia” va a creare una crasi semantica provocatoria, e prosegue la sua vis polemica nell’unica poesia, non a caso una sola, in cui un’altra invettiva, parecchio esplicita, investe i poeti e la poesia, mostrando come la metrica – ancora e sempre la metrica! – non riesca, da sola, ad addolcire forme e contenuti.

La terza sezione “Storia di un secondo” prosegue la riflessione sui meccanismi interiori, con una sola, incredibile certezza: “Se io fossi stato ma non fui mai/Il dubbio è incantevole”.

I giochi di parole, le assonanze e gli slittamenti semantici rendono bene il ritmo incalzante ed ironico della sezione, volta a un relativismo che ammanta perfino sé stesso e ricade sull’io, vittima o ribaltatore dei suoi stessi aneliti etici (“Il figliol prodigo è nazista/i nazisti li sterminerei”).

Il linguaggio, espunto ogni barocchismo, utilizza i termini più precisi per rivelare meccanismi e funzioni, ma non inganna sulla sua veste di pastiche balestriniano del gergo merceologico-commerciale, o semplicemente mediatico: “Il prodotto non è più disponibile/il prodotto è frutto della fatica/il prodotto nasce dai moltiplicatori/la disoccupazione è assenza di fatica”.

Ed è proprio all’apice della dissoluzione del verso (e dell’io) che affiora l’assonanza al lirismo caproniano, piano e vividissimo: “Ovunque vada mi porto con me/anche dove/proprio lì/dove non sono mai”.

Il tema civile (società, clima, capitalismo, povertà) diventa un modo di parodiare la vita e la scrittura, di esasperare le frasi fatte fino a ridicolizzare i loro possibili esiti logici (“noi parliamo del clima/siamo cipolle nei vestiti/senza odore”), e di fare del gioco allitterativo di suoni un modo per riportare all’agonismo che spinge e sostiene l’umano agire: “esco atletico sull’Atlantico/vestito di ceramica”.

La quarta sezione, “L’anti geometria dei limoni atlantici” (con esergo, non a caso, di un Gleize rinnegante della poesia), apre la via a un poemetto in forme lunghe che, però, non rinuncia alla frammentazione grammaticale e di senso. Sonda numerosissime tematiche antropologiche, unisce opposti ermeneutici, ravvicinano fatti e ragionamenti, opera una composizione che oltrepassa il collage della Poetry Kitchen e aggiunge note emotive alla poesia ricognitiva dei più recenti e noti sperimentali.

Maffii lascia esplodere una espressività intellettuale – ma mai didascalica o assertiva – che non dismette un attento sguardo sulla lacerazione esistenziale (di portata oceanica) e che caratterizza l’uomo in tutte le sue attività, primo fra tutti l’atto atletico della poesia.

 

*        *        *

*        *        *

 

C’è qualcuno sulla punta delle dita

dietro l’angolo

o raramente negli aspetti diurni

La cosa più insopportabile è la coda

il caffè diventato freddo

la glorificazione degli inetti

e la metrica intanto?

 

*

 

Sentiteli tutti

si scambiano parole

pensando di avere lo stesso diritto

che ogni parola lo stesso valore

che possono dire la loro

e sentirsi importanti

in fondo al burrone

alla foiba infinita

a quella parola

che in bocca allòro

non vale più niente

sì ma la metrica poi

 

*

 

Uno specchio si frantuma

in tanti altri specchi

non si rompe quindi

continua la sua opera

per ricomporre l’immagine

che non c’è che crei

oppure fingi l’impatto

e togli il senso

l’aggiungi

lo ricrei

L’unico rischio

è il sanguinamento delle dita

 

*        *        *

 

 

 

*        *        *

 

Tra i lavori di Giulio Maffii ricordiamo: il saggio breve “Le mucche non leggono Montale” (2013), “Misinabì” (2014) poemetto basato sui miti della morte degli Indios Taino, il saggio “L’Io cantore e narrante dagli aedi ai poeti domenicali: orazion picciola sulla parabola dell’epos” (2014), “Il ballo delle riluttanti” (2015), “Giusto un tarlo sulla trave” (2016) e “Angina d’amour” (2018)). Nel 2020 ha pubblicato per l’“Archivio per l’antropologia e l’etnologia”: “Con i piedi in avanti: la lunga passeggiata di anthropos e thanatos tra poesia e vizi simili”. Nel 2021 il suo ultimo lavoro di poesia visuale edito per Pietre Vive editore “Sequenze per sbagliare il bersaglio”. Scrive e collabora con la Compagnia teatrale Bubamara Teatro. Fa parte dell’associazione Pallaio per gli studi antropologici e multidisciplinari di Firenze. È docente di storia contemporanea presso il corso di laurea in Scienze giuridiche della sicurezza.