1            Editoriale

5            Bellezza e verità…

1           Giuliano Ladolfi

 

8           In questo numero

1           Giulio Greco

 

1           Saggi

 

9            Franco Buffoni: la vertigine di una poesia “totale”

1           Giuliano Ladolfi

 

20          «Come un’opera della vita». Intorno a Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli

11           Annalisa Giulietti

 

26          L’impronunciabile dire. Lettura di Sirene di Ivonne Mussoni

1           Stefano Bottero

 

32          Emilio Zucchi: «pane, parola, poesia»

11         Camillo Bacchini

 

1       1  Dibattito

 

37          Il lavoro della poesia nella tensione tra inconscio e forma

1           Marco Nicastro

 

1       1   Intervista

 

42          Voci dall’aldilà. Vite spezzate e poesia: dialogo con Piero Schiavo

11           a cura di Guido Mattia Gallerani

 

1         1 Voci

 

49          Yeray Barroso: l’identità interiore

11           presentazione e traduzione di Francesco Accattoli

52          Testi

 

52          Sonia Elvireanu – Il canto del mare all’ombra dell’airone cinerino

11           presentazione e traduzione di Giuliano Ladolfi

62          Testi

 

68          Massimo Morasso – In «un più alto non distinto ibi»

11           presentazione di Daniela Bisagno

71          Testi

 

81          Alessandro Moscè – Aspettiamo la mezzanotte

11           presentazione di Mario Famularo

83          Testi

 

90          Mattia Tarantino – Cet e l’ircocervo

1           Testi

 

95          Gli autori


Editoriale – Bellezza e verità…

«Bellezza è verità, verità è bellezza, questo solo / Sulla Terra sapete, ed è quanto basta», così John Keats splendidamente conclude la celeberrima Ode su un’urna greca. Il passo induce a riflettere sul concetto di “bellezza” all’interno di una posizione estetica personalista, sulla quale da diversi anni stia- mo svolgendo approfondimenti e analisi, come pure all’interno della nostra società “emporiocentrica”, sorretta dal mito dell’eterna giovinezza, dall’efficienza, dal fascino, dal successo soprattutto.

Come sostiene Umberto Eco, il concetto di bellezza lungo i secoli ha assunto forme diverse. Nell’antica Grecia si coniugava con gli ideali di armonia, proporzione, eleganza e perfezione. La stessa ricerca della sapienza che avrebbe consegnato alla cultura occidentale l’inestimabile patrimonio della filosofia non poteva essere disgiunta dall’anelito al bello, all’eleganza, alla dignità che coinvolgeva non solo la pratica, ma anche il pensiero e, da Socrate in poi, l’impostazione dell’intera vita.

Nel Medio Evo, secondo la Filosofia Scolastica medioevale, ens, verum, bonum et pulchrum con- vertuntur in unum (l’essere, il vero, il bene e il bello convergono in unità): l’essere, in quanto essere, è buono, è vero perché esiste, è bello rispetto al non esistere; il vero è buono rispetto all’errore, è bello perché piacevole; il bello è buono e vero perché è splendore del bene e della verità.

Secondo Kant, il bello è «oggetto di un giudizio estetico puro» privo di interesse e slegato da ogni forma di concettualità.

Durante il Romanticismo, l’area semantica si ampliò includendo anche ciò che è lontano, magico, sco- nosciuto, compreso il lugubre, l’irrazionale. La bellezza cessò di essere una forma e diventò bello anche l’informe, il caotico, come pure il meraviglioso della natura, i paesaggi esotici, primordiali e i sentimenti sublimi.

Uno dei personaggi dell’Idiota di Dostoevskij pronuncia la famosa frase «Signori, il principe affer- ma che la bellezza salverà il mondo!»…

Non vogliamo assolutamente ripercorrere l’intera storia della concezione estetica in modo completo: questi esempi bastano a corroborare la concezione di Eco.

La nostra stessa posizione, sostenuta in diversi interventi precedenti: «Oggi non è più il tempo di creare arte solo con il fine di rappresentare la bellezza e di procurare un piacere estetico, oggi non ci si deve proporre il fine di produrre un tipo di conoscenza “olocrematica” (÷loç “che forma un tutto inte- ro” e cr≈ma “cosa che si usa, utensile”), onnistrumentale (non “onnicomprensiva” nel senso che deve comprendere tutto) nel senso che adopera la totalità degli strumenti gnoseologici umani. Di conseguenza, è la conoscenza (la scoperta di una nuova apertura sul reale) che produce il piacere estetico, non il piacere estetico che produce la conoscenza. Nulla vieta di considerare l’armonia artistica come strumento di intel- ligibilità del complesso, del molteplice e del caotico, sempre restando nell’ambito di un’impostazione gno- seologica», richiede un approfondimento.

Se sosteniamo che la bellezza è strettamente legata alla conoscenza di un altro ente, è fondamentale definire di quale tipo di conoscenza si parla. Si tratta di una conoscenza “empatica” che coinvolge l’inte- ra personalità del soggetto. Il vocabolo “empatia deriva dal greco ùn (“in”) e dalla radice paq- del verbo pßscw («presso gli Stoici, ricevere passivamente una conoscenza, sperimentare, conoscere», crf. Vocabolario della lingua greca di Franco Montanari), vocabolo che nel tedesco Einfühlung, signi- fica “immedesimarsi”. Pertanto per “conoscenza empatica” intendiamo un processo di immedesimazione, di “compenetrazione”, di “fusione di orizzonti”, per usare un’espressione gadameriana, tra soggetto e oggetto, che coinvolge tutte le dimensioni di un essere umano, da quella intellettuale, a quella percettiva, a quella emotiva, a quella fisica… Non dimentichiamo che nell’antico ebraico la radice jd’ accanto a con- cetti come “accorgersi, notare, sperimentare”, comprende anche “sapere”, concetto da non intendere unica- mente in senso speculativo, ma come contatto con la realtà e quindi anche “occuparsi di” e “avere rap- porti sessuali”.

Pertanto, la conoscenza empatica, quella autentica, non può essere ripetitiva sia perché il soggetto conoscente cambia sia perché l’esperienza lo pone di fronte a sempre nuove realtà. E proprio questa “novità” genera conoscenze che impegnano l’essere umano, la cui profondità dipende dall’apertura del soggetto di fronte all’altro-da-sé e che si accompagna a un senso di stupore e di meraviglia di fronte a una realtà, che si rivela in lati inaspettati che ci incantano.

La lettura del carme LXXXV di Catullo: «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. / Nescio, sed fieri sentio et excrucior» (Odio e amo, amo e odio. Che mi succede? / Proprio non mi capi- sco. Sento solo il mio cuore lacerato) nella sua essenzialità può portare alla luce il conflitto interiore del giovane liceale, lasciato dalla ragazza.

Questa è la bellezza di un testo. Pensiamo poi ai lirici greci: dopo aver letto Saffo, non possiamo non contemplare una notte stellata con un senso di solitudine. E l’Inno a Venere di Lucrezio? Fin dalla prima lettura ricordo di essere stato rapito dall’entusiasmo che respiravo da quei versi sostanziati di un coinvolgente vigore della natura che rinasce. Nel canto V dell’Inferno non possiamo non essere coinvolti dalla potenza travolgente dell’amore, come non possiamo non essere toccati dalla sublime malinconia di Pia de’ Tolomei, tradita da colui in cui aveva riposto tutta la sua fiducia. E non piangiamo forse la morte prematura di una persona cara con le domande che Leopardi rivolge alla natura in A Silvia? L’Ode al vento dell’Ovest di Percy Bysshe Shelley ci trascina con l’impeto della sua potenza. Nei momenti di sconforto ci troviamo accanto Thomas S. Eliot nella Terra desolata o ci vediamo con Montale percorrere un sentiero di campagna lungo «una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di botti- glia». Ognuno potrebbe continuare all’infinito nell’elenco di passi che lo hanno “stregato” con la loro bel- lezza, potrebbe indicare tele, sculture, complessi architettonici o brani di musica.

Il concetto di bellezza come conseguenza di una conoscenza che coinvolge la totalità dell’essere umano non esclude anche la rappresentazione del dolore, della sofferenza, del male. Basta pensare all’Inferno di Dante e alle straordinarie rappresentazioni di personaggi “tragici” come Caronte o il Conte Ugolino, i quali ci aiutano, il primo, a scoprire la disperazione dei dannati e, il secondo, la tragedia della pater- nità incapace di salvare i figli dalla morte.

E proprio queste “folgorazioni partecipate”, più ancora che condivise, ci offrono gli “strumenti” per conoscere in modo più profondo la realtà esterna e interna.

Gli esempi riportati non devono indurre a concludere che la bellezza sia prerogativa unica di “prodot- ti umani”, quale l’arte, anzi… la bellezza ci accompagna ancor più durante tutta l’esistenza, prima ancora di sapere leggere e di saper scrivere riguarda l’intero campo di esperienze umane. E, anche quan- do ci troviamo di fronte a fenomeni naturali sublimi o a persone di cui ci innamoriamo, proviamo un’e- sperienza di conoscenza totalizzante.

Queste considerazioni ci conducono, quindi, a un punto fondamentale: la bellezza è sempre frutto di una “relazione”, che nasce e si sviluppa in modi diversi e che vanno dalla semplice contemplazione di un ele- mento esterno al rapporto interpersonale (essere umano, essere animato o realtà materiale) per giungere alla romantica “fusione” sensuale e spirituale.

Pertanto, la bellezza non si dà in se stessa, è la conseguenza di un atto di conoscenza empatica che produce un arricchente processo di trasformazione, che interpretiamo secondo i presupposti della filosofia personalista: «L’essenza dell’essere è, ed è soltanto, co-essenza; ma co-essenza o l’essere-con-l’essere-in- tanti-con designa a sua volta l’essenza del con-, o, meglio ancora, il con- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza» (Jean-Luc Nancy). A differenza delle variegate posizioni dell’estetica occidentale, “l’es- sere con-”, la relazione. costituisce, quindi, il primum irrinunciabile.

Una simile concezione permette di ancorare il concetto di “bellezza” alla realtà, sottraendola al peri- colo di relegarla nell’iperuranio, e la àncora strettamente al nostro rapporto con il mondo e, quindi anche, all’arte, che ne diventa epifania concreta, mai esclusiva. La bellezza, se da una parte non si identifica in nessuna manifestazione perché non la si può identificare con nessuna opera specifica, dall’altro si col- loca in ogni relazione empatica di valore umano. Quindi non esiste la bellezza prima della conoscenza e tanto meno come qualità di una persona o di una cosa, esiste unicamente come “essere l’uno-con-l’altro”

«determinato nel suo stesso essere come essente l’uno-con-l’altro». E allora la conoscenza “empatica” diventa conoscenza “simpatica” secondo il significato etimologico del termine: sun pßscw, cioè provo sensazioni, emozioni, conoscenze comuni; compio un’esperienza insieme.

Da quanto abbiamo sostenuto, deduciamo che proprio dall’ampiezza di questa conoscenza condivisa nel passato e nel presente e, presumibilmente, condivisibile nel futuro, deriva il valore di un’opera d’arte.

Se la relazione si limita alla superficialità, all’oscurità, al difetto di comunicazione, non può certa- mente produrre effetti coinvolgenti. Ma, se la relazione coinvolge “simpateticamente” i problemi umani, le questioni esistenziali, l’interpretazione di un determinato periodo culturale con cui gli esseri umani hanno interpretato o interpretano il senso di abitare questo pianeta, allora la bellezza diventa strumento di autentica conoscenza che supera i limiti temporali e si colloca come realizzazione di un tesoro destina- to a migliorare la qualità della vita dell’intera nostra stirpe.

E allora bellezza e verità sono sinonimi?

Non si possono far coincidere le rispettive aree semantiche; si possono sovrapporre in modo ampio sia perché la bellezza è una continua conquista sia perché la verità rappresenta un’inesausta tensione irrag- giungibile dall’atto di conoscere dell’essere umano. Ma proprio in questo spasmodico desiderio, che si tra- duce in sforzi mai paghi, si deve rintracciare la manifestazione più evidente della sua nobiltà.

Giuliano Ladolfi


In questo numero

Nell’Editoriale il direttore affronta in modo originale il concetto di bellezza alla luce di una concezione personalista rintracciandone l’essenza nel concetto di “relazione”.

La sezione Saggi continua a realizzare gli obiettivi di «Atelier», da sempre impegnata a offrire ai suoi lettori le più qualificate produzioni poetiche attuali: Giuliano Ladolfi esamina l’ultima raccolta di Franco Buffoni, Betelgeuse, che ambisce a presentare una sintesi vertiginosa dell’esistente tramite l’apporto di tutti i saperi: dalle scienze esatte alle discipline umane; Annalisa Giulietti interpreta Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli come «opera della vita», intesa come perenne ricerca poetica del senso dell’esistere, individuato nell’atteggiamento del ringraziamento; Stefano Bottero nella raccolta Sirene di Ivonne Mussoni, attraverso la fisicità spezzata della creatura, divisa tra uma- nità e creaturalità, coglie l’emblema della realtà: un’insanabile frattura dell’esistenza e dell’esistente; Camillo Bacchini nel saggio Emilio Zucchi: «pane bianco parola» disegna il percorso artistico nel poeta rintracciandone gli elementi caratteristici nella quotidianità, nella religiosità e nel rapporto campa- gna-città.

Nella sezione Dibattito pubblichiamo la pregevole riflessione di Marco Nicastro sulla poesia, intesa come un confronto con il limite costituito dalle scelte stilistiche e formali e dalla necessità di superare l’andamento razionale del discorso tipico della prosa, elaborando un significato attraverso strumenti linguistici diversi.

Guido Mattia Gallerani in Intervista approfondisce con Piero Schiavo la tematica fondamenta- le della raccolta di poesie di quest’ultimo, Una voce una parola, ancora. Qui la poesia si carica di una fortissima tensione morale capace di suscitare nel lettore una reazione contro la diffusa assuefazio- ne nei confronti della violenza sulle donne.

In linea con l’esigenza di proporre un’attenta opera di selezione di coloro che scrivono in versi, ampio spazio è dedicato alle Voci. I primi due poeti sono stranieri. Francesco Accattoli nel pre- sentare la silloge tratta da Nunca seré mi madre y no pariré mi hermana, evidenzia come il corpo, secon- do lo spagnolo Yeray Barroso, non crei «un’identità interiore, ma uno stare, che occupa uno spa- zio fisico e sociale, un essere univocamente se stesso e mai altro». Nelle folgoranti composizioni della poetessa rumena Sonia Elvireanu Giuliano Ladolfi rintraccia il fascino degli idilli greci, capa- ce di fermare l’essenza di particolari sensazioni interiori, provocate dalle bellezze naturali oppure dai propri sentimenti. I testi di Massimo Morasso, secondo Daniela Bisagno, esprimono una sotti- le «insofferenza verso un legame – quello con la terra-mater –, sentito […] come castrante, [nelle] prime fasi di un itinerario spiritual-sapienziale arduo, perché segnato da tormenti, esitazioni, cadute, lotte interiori». Mario Famularo nelle composizioni di Alessandro Moscè

Conclude la sezione Mattia Tarantino, il quale nella figura dell’ircocervo intende «indi- care lo slittamento del possibile al di sotto della sostanza, tentando di dissolvere, incrinare la sostanza stessa», mediante l’escoriazione, la macchina, il frammento.

Concludono il numero le schede biobibliografiche degli autori che hanno collaborato.

Giulio Greco