Atelier 95: Per un’estetica personalista “Il sole che va via”, Cosimo Orstesta all’incontro con La camera da letto, di Giacomo Morbiato

copertina Atelier 95

Atelier 95 
Per un’estetica personalista 

«Il sole che va via». Cosimo Ortesta all’incontro con La camera da letto
Giacomo Morbiato

(Un estratto)

                                                                                                     […] ma intanto dentro
                                                                                                           non è più come prima, la mente
                                                                                                           s’è distratta dal suo chiuso penare,
                                                                                                           gli occhi s’inumidiscono, grati
                                                                                                           delle cose che illumina in distanza
                                                                                                           il sole che va via.

                                                                                                           La camera da letto, V, 177-82

1. Non si fa un torto a Cosimo Ortesta dicendo che la sua è una poesia che si nutre di altra poesia, a patto, però, di intendere tale nutrimento come una linfa che conduce dalla letteratura alla biografia letteraria,e da questa alla radice della vita (sua e degli altri), invisibile ma fondamentale. Citazioni, allusioni e riscritture rappresentano per lui qualcosa di più e di diverso che non un semplice omaggio o rituale metaletterario. Non si tratta di un’enfasi posta sul testo poetico e il suo linguaggio all’implicito fine di sancirne l’autonomia, la separatezza ontologica, bensì del riconoscimento, in altri corpora poetici, di interrogativi esistenziali, percorsi autoconoscitivi e traumatiche sorgenti biografiche che misteriosamente coincidono con le proprie. Tuttavia, e qui entriamo nella contraddizione, se è vero che la poesia non può essere recisa dalla propria origine vitale, è altrettanto vero che essa, per sussistere, deve potersi staccare da essa. In altre parole, è poesia proprio ciò che di una materia vitale oscura e indecifrabile riesce a trasformarsi in parola, guadagnandosi l’accesso all’esistenza in un altro dominio dell’essere. La vita in questo senso coincide negativamente con l’evenienza della morte e il dolore reale del corpo e della mente, e va pensata come quella forza violenta che rischia in ogni momento di annichilire la traduzione simbolica del vissuto e del proprio mondo interiore. La poesia, dunque, che non può esistere senza la vita, si distacca dalla vita ed esiste a dispetto di essa, proteggendo l’individuo dalla sofferenza grazie alla mediazione dei propri simboli e all’alternativa psichicamente vantaggiosa di una simulazione di vissuto.

2. Una simile impostazione del rapporto vita-letteratura comporta, per Ortesta, preferenze assai precise sul piano dei modelli. Egli predilige quei poeti nei quali una materia vitale urticante e incendiaria è l’oggetto da un lato di un rigorosissimo lavoro di trasposizione simbolica in una coerente e per sua natura astratta grammatica dell’immaginario, dall’altro di un altrettanto rigoroso tentativo di controllo mediante la forma. Si tratta, con l’eccezione del predicatore e sonettista barocco Giacomo Lubrano, di autori esemplari della tradizione del moderno otto-novecentesco, a cominciare dalla triade canonica del secondo Ottocento francese, Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, a lungo frequentata mediante un ascolto attento concesso dall’esercizio traduttivo 2 . A essa si aggiungono alcuni poeti anglosassoni (Frost, Auden, Stevens, Ashbery) più o meno concettuali e tematicamente devoti al freddo, mentre del bilingue Samuel Beckett si privilegia la produzione francese in prosa più o meno narrativa dalla Trilogia (1951-53) a Comment c’est (1961) fino a Mal vu, mal dit (1981). Tra gli italiani, un posto di rilievo spetta a Dino Campana in virtù della sua capacità di incarnare esemplarmente, assieme all’amatissimo Artaud, il nesso problematico e fecondo tra creazione artistica emalattia mentale: poesia e follia vivono anch’esse in quella speciale contraddizione nella quale, nonostante facciano entrambe perno sul corpo e sul desiderio, l’esistenza di una pregiudica quella dell’altra, secondo un vincolo di reciproca esclusione che le pur frequenti e costitutive intersezioni e contaminazioni non valgono a sconfessare. La poesia è allora quella specialissima forma di salute che si dà quando momentaneamente la malattia è sconfitta, ma soltanto in chi la malattia l’ha vissuta e sperimentata nel proprio corpo, rischiando l’afasia e il collasso. Di Campana Ortesta ha curato una Vita non romanzata (1978) 3 , ovvero il resoconto che della sua malattia (all’epoca diagnosticata come ebefrenia) redasse lo psichiatra Carlo Pariani, il quale poté visitare il poeta presso l’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci e ne trascrisse alcuni deliri. Campana, tuttavia, nei libri poetici di Ortesta esplicitamente non compare mai, mentre vi troviamo menzionati altri tre poeti novecenteschi, a lui più prossimi biograficamente: Amelia Rosselli (1930), Giovanni Giudici (1924) e Attilio Bertolucci (1911).