Anna Elisa De Gregorio “L’ombra e il davanzale” (Seri editore) – Lettura di Francesco Accattoli

DEGREGORIOCOPAnna Elisa De Gregorio “L’ombra e il davanzale” (Seri editore)

Lettura di Francesco Accattoli

 

“LA SOTTILE LINEA TRA L’OMBRA E IL DAVANZALE. SULLA POESIA DI ANNA ELISA DE GREGORIO”.

S’intitola “L’ombra e il davanzale” l’ultimo lavoro della toscana (ma anconetana d’adozione) Anna Elisa De Gregorio, pubblicato per i tipi della Seri Editore, un libro impreziosito da tredici illustrazioni di Francesco Pirro e da una nota introduttiva di Maria Grazia Calandrone. La raccolta si compone di due sezioni: la prima, eponima, comprende venticinque testi, tra liriche e prose poetiche, scritte tra il 2016 e il 2019, come riporta la “Clausola” alla termine della raccolta; la seconda sezione, dal titolo Sotto il guscio del cielo, riunisce ottanta haiku, genere letterario nel quale la De Gregorio ha saputo negli anni distinguersi (nel 2008 viene insignita del Premio Nazionale Haiku organizzato dall’Associazione Italiana Amici del Haiku, patrocinato dall’Ambasciata giapponese e dall’Istituto giapponese di cultura a Roma.). La scelta del titolo ci pone sin da subito dinanzi alla sottile linea che separa uno spazio ontologico dove le opposte forze si incontrano: il davanzale, simbolo dell’ostensione alla vita, si protende sino quasi a toccare la zona oscura, d’ombra appunto, dove “s’affollano i rovelli” (Stardust). Già nella prima lirica incontriamo quello che sarà il tema attorno al quale si raccolgono i testi, in particolar modo quelli appartenenti alla prima sezione: in Die Null si svela il luogo dove funambolicamente la voce della poetessa attraversa il suo tempo, una zona di confine, tra una “conciliante sospensione” e il risveglio, o in chiave più escatologica, tra la morte (l’ombra) e lo spazio antropico estremo (il davanzale), “mentre stiamo vivendo”.

”. Ed è proprio in quel «mentre» che si posiziona l’atto poetico, in quel sottile limen che mantiene intatto il gioco degli opposti. É infatti nella liminarità che risiede, a nostro avviso, la cifra dei versi della De Gregorio, una zona sottilissima dove si “capita”, verbo quest’ultimo che domina nelle prime due liriche, quasi a sancire una negazione di responsabilità, un fatalismo dal quale tuttavia può emergere un riscatto che spezzi la monotonia del vivere, il “vuoto balordo”, come lo definisce l’autrice. Lo scontro tra immanenza e trascendenza produce “quasi un’assenza” (Le insolite cose) lasciando un’aureola zuccherina (Torniamoci sopra), a testimonianza di quell’atto di volontà che si produce saldamente sulla linea di confine: l’approssimarsi al compimento, ma senza che questo accada, è a suo modo una forma di resistenza, l’indecisione si tramuta in una presa di coscienza che il limite esiste, e che la sospensione di cui parla Calandrone nella nota introduttiva, il “vuoto prima del risveglio”, non genera un horror vacui, al contrario, ne è l’antagonista. La riflessione filosofica della De Gregorio non fornisce “la formula che mondi possa aprirti”, per dirla con il Montale degli Ossi di seppia, con il quale per altro la poetessa condivide la sguardo sulla condizione umana, l’insistenza “ogni mattina/ verso indirizzi di sconfitta” (Come qualcosa che dura), ma si sporge con perseveranza sulla vertigine del «quasi» che ricorre – si pensi a Il peso del quasi, dove l’avverbio ricorre per ben sette volte – come strumento euristico, per indagare lo scarto tra presenza e assenza. Anche gli avverbi, ci sembra dire la De Gregorio, determinano la timbrica dello stare dentro il proprio tempo, “così sta l’amore dei vecchi” dentro un «forse», un «può darsi» o un «appena», che in L’ombra dell’avverbio, diventa congegno per una poetica della resistenza: attraverso l’uso della paronomasia, il semplice avverbio del v. 5 prende vita in quello successivo, annunciandosi, sebbene “avaro”, come atto di coerenza in limine. Alla continua tensione verso la zona di confine, tuttavia, non fa riscontro l’adesione ad un modello razionale che ponga un rimedio al dubbio, al sentimento ottativo che abita “i momenti del forse e del vorrei” (La distrazione); al contrario, la De Gregorio pare volersi liberare dalla spietata lucidità del tempo accumulato, che ritorna con la precisione di gocce (splendido l’hapax “gocciaagoccia”, che genera il successivo “mossadopomossa”) che seguono un percorso rigido sul vetro, “senza sbagliare rigo”, come anche gli ingranaggi “dentro l’orologio/ di cucina” (Il suono dei petali): a tale incessante confronto con le “ombre”, l’autrice risponde con una soluzione estetica, che prevede la metamorfosi del negativo in atti di bellezza (“vorrei fare petali di quelle ombre/ e fiori di ciliegio,/ alberi interi, vitali”.). La distrazione, nel senso latino di dis-traho, di “trascinare via, separare”, si riconverte in antidoto al vuoto, o se si vuole, a ciò che ci aspetta “mentre si chiude la porta”, è “un modo per prolungare/ il sogno o almeno il dormiveglia.(La distrazione) nelle “nostre vite piccole/ di condominio globale” (Come qualcosa che dura). Non vi è nulla di nuovo “in questa palazzina di mondo”, non c’è nessuna epifania che possa aprire orizzonti metafisici, il processo di adattamento all’esistenza si materializza persino nella “muta” dell’abito, così come fanno le cicale d’estate, fino a quando l’autunno cede il posto al rigore dell’inverno – altro ricorso alla liminarità – senza che questo generi affanno. Anche noi, come le cicale, ci sporgiamo temerari sul baratro, “distratti dalla fine impreparati”, una chiusa che, in tutta la sua ambiguità, ci pone di fronte ad uno dei motivi esistenziali più caratteristici dell’essere umano, e cioè l’atteggiamento nei confronti dell’ultimo passo; l’intero verso scherza con la geometria della sintassi e si presenta pervaso da un continuo rileggersi, la posizione al centro dell’endecasillabo di “dalla fine”, ci costringe ad un’ostinata riconsiderazione dei nessi logici: siamo “distratti dalla fine” nel senso di allontanati dall’idea della morte, per quel principio di autoconservazione che Guicciardini diceva essere proprio della razza umana, oppure “distratti” nel senso di troppo concentrati sulla fine? Ciò che senza dubbio risulta certo è che siamo “impreparati”. Nella regione del sonno avviene una sospensione “prima di arrendersi ai pensieri” (Die null), una pace che non tiene, dove i tormenti , come punture di api o “sassolini del sonno” (Il suono dei petali), sono i “sogni che non vogliono morire”, sono le “domande ostinate uccelline” (Bandiera bianca). Così il risveglio, il ritornare ciclico dell’alba, diventa un’occasione per sancire “solo un’umana tregua”, è una “grazia”, la terra raggiunta dal naufrago dantesco, che “con lena affannata,/ uscito fuor del pelago a la riva,/ si volge a l’acqua perigliosa e guata.”. Tuttavia, il movimento verso il limen sembra dato per inevitabile. In questo modo, l’esperienza del confine tra il sonno e la veglia assume i contorni di una breve anticipazione di ciò che verrà per tutti: prima o poi “le mani secche del vento”, che “tentano ostinazione le persiane” e che spazzano via “lo straccio/ teso sul filo per il freddo” (altra efficace immagine di resistenza equilibrista), “prima o poi l’avranno vinta” (Indagini su un rapimento) e arriveranno – la De Gregorio dosa con consapevole parsimonia i verbi al futuro – quando meno ce lo aspetteremo, “a finestre fiduciose spalancate”. Quello che avviene successivamente non porta i segni di una prospettiva fideistica: “suonerà il vicino una sera/ alla porta” (sembra dialogare con il Pascoli de L’assiuolo) e “nessuno/ risponderà dal vuoto delle stanze”, quello che di noi resterà avrà soltanto la consistenza della scia, dell’alone, “l’aureola zuccherina” nella tazzina del caffé. Così capita – per usare un verbo caro alla poetessa – che “trapassa l’ultimo treno/ fasci di girasoli e di tramonti” (Una comune paura), il ritmo circadiano dell’esistenza, infisso nel solco cartesiano del sole, arrivi affannosamente “ai passaggi a livello”, ultima barriera tra immanenza e trascendenza: “prima di scomparire/ cerchiamo tutti di arrivare a casa”, scrive la De Gregorio, tutti barattiamo “il crepacuore del carcere in cambio di memoria”, come falsari d’arte pentiti (I soccombenti), per dire “io c’ero/ e un po’ ci sono ancora” (Torniamoci sopra). Tuttavia è serena la tessitura della «scena finale», come in All’ombra dei fiori nessuno è straniero, ben ritmata da un’accurata alternanza di endecasillabi e settenari: l’uso del vezzeggiativo, “animucce”, è confortante, la folla di “piumini dei pioppi” (altra metafora che per l’immagine di leggerezza che genera, ci riporta alla similitudine dantesca delle anime dell’inferno paragonate a foglie d’autunno. Inf, I, 112-14) migra sulla città e tenterà di raggiungere il mare (non a caso, Omero nell’Odissea colloca il regno dei morti oltre i confini dell’Oceano): qualcuno di loro “sconfinerà”, trovando il suo capolinea in un locus amoenus, “un giardino/ senza carta d’imbarco”. Saranno poche eccezioni però, perché “i più s’abbandonano all’asfalto/ bagnati dall’alba, orfani di tutto”: la morte ha le sembianze dell’”uomo con le scope” che “fa il vuoto nei viali/ e chiede a nessuno i visti d’uscita”. In questa prospettiva escatologica, tuttavia, non c’è disperazione, ma solo lucida consapevolezza del meccanismo: come quello del faro “malato d’ombra” di Una storia di provincia, anch’esso in grado, pur nella precarietà della sua condizione, di cogliere l’occasione di redenzione in terra, “l’attimo immortale”, ossimoro felicissimo, prima di richiudersi senza vita: dare ospitalità all’abbraccio di “due provinciali/ ragazzi, sciarpe al vento”.

 

ALL’OMBRA DEI FIORI NESSUNO E’ STRANIERO

Animucce che cercano dimora
terrena: solleticano anticipi
d’estate in folla i piumini dei pioppi,
provocano a bassa quota la città.
Devoti del vento tenteranno
di raggiungere il mare.

Qualche seme al porto sconfinerà
fino a chissà quale terra straniera
e troverà dimora in un giardino
senza carta d’imbarco.
Ma i più s’abbandonano all’asfalto,
bagnati dall’alba, orfani di tutto.

Aspetteranno l’uomo con le scope
rotanti e il sacco delle vite perse,
che fa il vuoto nei viali
e chiede a nessuno i visti d’uscita.

*

INDAGINI SU UN RAPIMENTO

Tentano con ostinazione le persiane
serrate e scuotono i vetri
per aprire la finestra
si consumano per tutto l’inverno
le mani secche del vento.
Spazzano via le mollette
dal davanzale e lo straccio
teso sul filo per il freddo.
Inutile chiuderle fuori
prima o poi l’avranno vinta.

Aspetteranno i giorni dell’estate
le nocche rimarginate
e smacchiate con astuzia le mani
per prenderci alle spalle
a finestre fiduciose spalancate.
Suonerà il vicino una sera
alla porta: c’è nessuno? E nessuno
risponderà dal vuoto delle stanze
le tende gonfie per quel tocco
astratto di corrente.


Anna Elisa De Gregorio è nata a Siena da genitori campani. Abita ad Ancona dal 1959 dove lavora presso una agenzia di marketing. Ha pubblicato nel 2010 il suo primo libro di poesie Le Rondini di Manet per i tipi di Polistampa di Firenze, prefazione di Alessandro Fo (Premio Pisa 2010 opera prima; Premio Contini Bonacossi 2011 opera prima). Nel 2012, grazie al concorso Inedito Colline di Torino, ha pubblicato il suo secondo libro Dopo tanto esilio per i tipi di Raffaelli Editore di Rimini, prefazione di Davide Rondoni (nella cinquina finalista del premio Gradiva, New York 2013, primo premio Borgo di Alberona 2014). Nel 2013 ha pubblicato, grazie al DARS di Udine, una plaquette di poesie dal titolo Corde de tempo in dialetto anconetano. Nel 2016 per l’editore La Vita Felice di Milano pubblica il volume Un punto di Biacca con una nota di Francesco Scarabicchi (nella terna del premio Metauro 2016, finalista premio Guido Gozzano 2016). Di prossima pubblicazione, con l’editore Seri di Macerata, il libro L’ombra e il davanzale, con dodici illustrazioni di Francesco Pirro. Nel 2008 ha vinto il Premio Nazionale Haiku organizzato dall’Associazione Italiana Amici del haiku, patrocinato dall’Ambasciata giapponese e dall’Istituto giapponese di cultura a Roma. È presente in numerose antologie, pubblica articoli su riviste letterarie e blog (Poesia, Caffè Michelangiolo, Le Voci della Luna, Clandestino, Atelier, L’Immaginazione, Periferie, Nostro Lunedì, Poesia 2.0, Versante Ripido, Fili di Aquilone). Ha organizzato stage presso scuole e circoli culturali sulla poesia haiku.