(storia di Marja, ragazza zingara uccisa
nel campo di concentramento di Auschwitz)
Fu là in un agosto anticamera d’inverno,
tra due parentesi fredde di cemento,
che il cuore rallentò i suoi passi
fino a non saper più camminare
ed io mi osservai, dietro le palpebre,
pronunciare le ultime volontà
in un bisbiglio di occhi a dare un volto
ad una notte infinita.
Solo ieri pareva che maggio non finisse mai:
quasi un sorso di gioia da assaporare d’un fiato.
E c’era lui, immerso nel mio sguardo,
a cercare di tradurre ogni mio sorriso
in parole d’amore prima che arrivassero
i soldati a reciderci dalla vita
come vene dai polsi terrestri.
E ci voleva coraggio in quel campo di nuvole
strappate dal cielo a rimanere genuflessi,
come le vertebre di un girasole, sui propri avambracci
mandare a memoria quella lettera Z
e trovarsi al capolinea di un alfabeto di dolore
solo per ricordare il mio nome come
il battesimo di ogni benedizione e ascoltarsi
le proprie aritmie come la corda pizzicata
da una pronuncia di giostre in disuso.
E poi fu solo un sussurro di lacrime
fra le ciglia a sfogliare un calendario di voci
che cadevano, una dopo l’altra, come una margherita di giorni
mentre rivolgevo una carezza a quella luce lontana
che chiamano dio.
E se questo vuol dire sottrarre una nota
allo spartito dell’eterno, io sono una nenia
tra il destino e l’addio, un atomo spettinato dai silenzi,
al di qua del campo, alla periferia del vento.