A quel bambino mi rivolgo

C’è sempre un sottinteso

persino nella frasi più innocenti.

Le maestre correggono i compiti

occupandosi solo di sintassi

e ortografia. Il compito assegnato

è diventare un buon cristiano

che non corre lungo i corridoi.

Tutte le presunte certezze impartite

segnate bianco su nero alla lavagna

potremmo ora definirle ipotesi

non comprovate. E’ troppo tardi ormai

per alzare la mano.

Non resta che conformarci agli esempi,

sbirciare nel cuore del compagno di banco,

copiarne le risposte, sottrarsi alle domande,

controllare il dizionario alla ricerca

di un sinonimo accettabile che consenta

di declinare i verbi all’infinito.

Fuori dalle vetrate potrebbe esserci il mare.

C’è invece un muro bianco

decorato dalle ombre dei platani.

Luce su luce che danza a braccia nude

strette alle cose felici, alla frutta

poggiata sul tavolo della mensa

prima che la buccia avvizzisca

e risuoni la campanella.

A quel bambino mi rivolgo,

alle sue vastissime estati

attraversate correndo, trattenendo

il respiro, guardando dal basso,

sulle punte dei piedi.

A lui mi confesso quando scrivo,

al bimbo innocente che sono stato.

Lui il mio giudice,

il mio interlocutore.

Il mio accusatore.