Matteo Zattoni, I figli che non tornano – Recensione di Guido Mattia Gallerani

Matteo Zattoni, I figli che non tornano, Ancona, peQuod, 2021, «Quai de Boompjes», 158 pp., € 15,00.

 

Romanzo di formazione, saga familiare, elegia, simposio: sono alcuni dei generi letterari attorno cui il nuovo libro di poesie di Matteo Zattoni gravita senza però uscire dall’orbita lirica. Dopo una decina d’anni, un autore precocemente individuato e segnalato tra le nuove voci della nostra poesia ritorna con una raccolta particolarmente corposa, composta di un trittico, a sua volta scandito da ulteriori sezioni interne. La struttura ricalca il modello delle tre età dell’uomo: giovinezza, maturità, vecchiaia. Ma l’impianto scelto da Zattoni propone piuttosto nuclei tematici che articolano una storia del soggetto lirico lungo un ritmo vitale, il quale usa la cronologia del soggetto come un’impalcatura di servizio, salvo poi focalizzarsi su determinati sentimenti e sensazioni che hanno un valore trasversale. Gradualmente nel corso del volume, il tempo assume infatti un valore ambiguo, che oscilla tra la durata della memoria e la minaccia della sua perdita, sempre incombente dietro le spalle del poeta. La dialettica tra resistenza del ricordo e sua dissipazione finisce per aggregare la moltitudine di testi.
La prima parte, “Lo slancio dell’inizio”, è dedicata al periodo dell’adolescenza, ricostruita in una catena di episodi in cui il colore della spensieratezza si copre di un’ombra inquietante, una distorsione che fa apparire, già a inizio del libro, l’opera distruttiva del tempo. La mitizzazione della gioventù viene spezzata dalla coscienza del presente, che irrompe nel quadro mitologico dell’amicizia rappresentata da una classe scolastica. Lo sguardo retrospettivo – lo sappiamo – è sempre predisposto a illuminare il senso delle passate esperienze alla luce dei desideri di chi le ricorda ed è facile, dunque, collezionare piccole vicissitudini individuali in un racconto arricchito di posticce valenze epiche: l’unità del gruppo s’impone così sulle fratture e sui contraddittori momenti della formazione dei nostri tanti “noi” adolescenziali. L’ottica di Zattoni interrompe l’astrazione del processo memoriale, inscenando una serie di conflitti tra l’io e l’insieme dei compagni. Ad esempio, la giustificazione per l’interrogazione di un alunno diviene spettro dei rapporti di lealtà e dei conseguenti tradimenti: «Fino a quell’istante il destino di uno / era sotto lo scudo di tutto / il gruppo. Poi il capo/ si alza, guarda il patibolo / al centro dell’aula / tradisce l’amico. Mi giustifico» (p. 12). Pensare al valore assoluto attribuito a relazioni invece precarie significa ricalibrare il valore di parole spese con troppa leggerezza: dare un braccio per l’amico, come dice la frase fatta, avrebbe creato «uno storpio, patetico / mutilato senza mutua / ma avrei salvato in extremis il cuore» (p. 17).
Modernamente, l’unità non è perduta perché si è interrotta a un certo momento nel passato, ma l’azione del ricordo permette di riconoscere che nello stesso archivio delle esperienze era insinuato il germe della separatezza e, quindi, la poesia di Zattoni si popola di un insieme di vite molto più complesse di quelle restituite in una fotografia di classe, dove volti e nomi sono congelati tutti in una perfetta, unitaria ed edificante posa. Nell’ultima poesia della prima parte leggiamo: «[n]iente di ciò che perdevano / sarebbe più stato lo stesso / nel minuto successivo. La loro gioventù / finita un attimo dopo / lo slancio dell’inizio» (p. 54). In particolare, il comportamento ambivalente dell’io nei confronti del tempo viene svelato in un testo dedicato alla sveglia: «Cullavamo il sogno di dormire / un quarto d’ora oltre il chivalà / della sveglia. // O in alternativa: / disintegrarla, sparpagliare per terra / tutti gli ingranaggi come interiora / e saltarci sopra, calpestarli / fino a ristabilire l’anarchia» (pp. 33-34). Ecco come la tentazione di spezzare l’ordine proietta quell’epoca lontana, coniugata all’imperfetto, dentro una dimensione contraddittoria e abissale, che non capiamo più se essere incubo o sogno: «qualcuno dice che non siamo mai veramente usciti» (p. 53).
Nella seconda parte, che dà il titolo al libro, l’incastro dell’io con le altre fasi della vita si fa più stretto, benché si mantenga sempre su un piano scivoloso. In una poesia dedicata al padre, il poeta indossa il suo cappello, ma «il nostro capo / entrando nell’alveo d’un altro, pur noto / estraneo» non combacia con questo: «diversa la circonferenza e il diametro» (p. 82). Soprattutto, le situazioni quotidiane in cui egli si muove s’addensano all’anticamera della morte: il modello offerto da Tema dell’addio (2005) di Milo De Angelis consente di precisare per l’incontro tanto un luogo (l’ospedale), quanto un “tu” in bilico tra presenza e perdita. Zattoni approfondisce il sentimento della paura per la scomparsa dei propri cari che diviene preponderante nell’ultimo capitolo, “Ultimi giorni”, in cui l’io inscena un dialogo con i fantasmi della famiglia. Qui, il discorso espressivo sembra raggiungere il punto d’arrivo: l’esperienza della memoria si mostra capace di parlare della perdita. Le parole pronunciate al cospetto delle persone sono «la prima di tutte le future / poesie senza pubblico» (p. 136). Il legame con gli spettri pone, insomma, il dialogo come soluzione stilistica peculiare della poesia di Zattoni.
In sostanza, il carico di pathos de I figli che non tornano infonde un’intensità al volume che non viene mai meno, anche di fronte a situazioni molto diverse, le quali vengono sempre descritte nel nesso di un dato concreto e di un’interpretazione personale. Emblematica la poesia Trucioli: «Truciolo purissimo ricciolo / di metallo lavorato […] capolavoro / fragile e delicato […] “Sì, anche noi / siamo il frutto e lo scarto / di feroci sottrazioni”» (p. 75). Sul finale, il connubio espressivo lega insieme descrizione dei luoghi e rivisitazione di un percorso umano, in una sequenza di poesie dedicate alla montagna, passione di uno dei defunti: la «parola che ti chiama / al tepore di una casa» permette di riconoscere «la tua parentela ancestrale / con le galassie: ti affezionerai alle rocce che vorticano / nello spazio, non avrai pesi / né peso, volerai appena più lentamente / della luce dentro quella cabina / di funivia che è la tua carne» (p. 139). La relazione tra uomo e realtà isola momenti privilegiati, secondo la lezione dei maestri novecenteschi (oltre De Angelis, anche Maurizio Cucchi, che firma la postfazione al volume, e in generale Vittorio Sereni). Il valore degli episodi appare – proustianamente – fuoriuscire dall’alveo di un immaginario scavato dall’assenza e riempito da un ricordo che reca tutte le tracce della mancanza.

Guido Mattia Gallerani