Marco Corsi, ‘La materia dei giorni’. Lettura di Davide Morelli

Marco Corsi

La materia dei giorni

Manni, 2021, pp.112, Euro 13,00

ph. di Dino Ignani

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Sono vari i registri linguistici e diverse le modulazioni metriche che compaiono in questa raccolta, che tuttavia si contraddistingue per la compiutezza formale e la coerenza interna. Corsi con padronanza degli strumenti espressivi evita qualsiasi ritmo ipnotico; non utilizza infatti alcun procedimento iterativo né alcuna musicalità scontata e cantilenante. Sa variare il tono ed evita il tecnicismo esasperato, non ricerca a tutti i costi le forme chiuse, anzi si distingue a tratti per la prosa poetica. È giustamente più attento a declinare le scansioni percettive e psichiche che non quelle delle sillabe. Ha assimilato le lezioni di tutti i grandi poeti del ‘900, ma non saccheggia mai né imita nessuno. Non è un caso di epigonismo, pur avendo avuto dei maestri. È ben ancorato nel presente. È contemporaneo di sé stesso: cosa sempre più rara. Molti si volgono troppo indietro. Invece in Corsi assistiamo ad un tropismo verso il presente. Lui si orienta prevalentemente verso il mondo attuale ed è per questo che le sue liriche sono coinvolgenti. Non solo ma Corsi ha una sua voce propria. È un giovane letterato ma al contempo anche un poeta alieno dai topos letterari e dalla programmaticità ideologica. Procede con piglio deciso in modo autonomo ed indipendente. Riesce ad elargire folgorazioni poetiche sotto forma di brevi sentenze (“e provo uno stupore quieto/ nel dirti che ognuno è solo/ in questo dolcissimo viandare”, “beati vivremo senza speranza/ nella terra chiara della solitudine”, “sei tu la trama dei giorni/ e io, senza ombra di dubbio,/ l’estenuazione dell’inganno”, “la vita, mi ripeto, ha il peso specifico/ dell’aria, i segni della terra e del fuoco,/ l’abbondanza dell’acqua,/ venature finissime di sangue e corallo”), pur non perdendosi mai in funambolismi ed escamotage di nessuna sorta.

Perché ci sia poesia a mio modesto avviso devono essere presenti quattro elementi nella maggioranza dei casi: 1) l’autore deve saper esprimere una visione del mondo o quantomeno deve prendere coscienza di una problematica e deve esprimere una sua chiave interpretativa. Deve cioè avere una poetica. 2) l’autore deve conoscere le regole fonosimboliche, metriche, semantiche, espressive, culturali della poesia, indipendentemente dal fatto che le rispetti o le trasgredisca. 3) il poeta, registrando i dati sensibili, deve giungere agli universali. 4) il poeta deve conoscere non solo il suo spartito, ma anche tutta la partitura, ovvero le molte voci poetiche del passato e del presente.

Può sembrare scontato ed ovvio, ma non lo è affatto. Detto in due parole il poeta deve avere una voce inconfondibile, deve avere un suo stile. Entrambe le cose secondo me sono presenti in Corsi.

La sua è una poesia ponderosa, esauriente, tendente all’accumulo, ma mai sovradimensionata, con i piedi ben piantati in terra: può scegliere anche il percorso più accidentato, ma lo manterrà in equilibrio la conoscenza salda della tradizione (la strada per un poeta è sempre irta, impervia, tutta in salita). Equilibrato è anche l’atteggiamento stilistico dell’autore che non è mai intimista o espressionista. Si situa in una posizione intermedia tra l’io ed il mondo; si dimostra tutto sommato bilanciato, anche se talvolta il soggetto è decentrato. Sulla questione il poeta ironizza ( “A è un soggetto lirico/ B una succulenta matura”). La sua poesia è difficilmente classificabile ed etichettabile come poesia di ricerca, poesia neolirica o poesia aforistica ed è la controprova di quanto la sua ricerca sia autentica ed originale. Il poeta evita accuratamente le pretese moralistiche, lo straniamento, la mimesi del parlato, l’effusione, la catarsi, la confessione, l’assertività o il suo rifiuto totale, che è anche essa a sua volta una altra forma di assertività: tutte cose che sono molto diffuse oggigiorno. La sua parola non è mai avvolta da un alone di indeterminatezza. Piuttosto è contrassegnata dalla precisione e dalla cura del dettaglio, qualità che sono per l’appunto connaturate ai suoi studi letterari. Corsi non adopera mai immagini persistenti e troppo ricorrenti. Riesce sia nel figurativo che nell’astratto. Senza cercare di tracciare un profilo psicologico né di individuare le sue coordinate esistenziali, uno dei suoi leit motiv è il viaggio.

Di solito gli scrittori e i poeti sono ispirati dalla realtà, ma Corsi si caratterizza anche per la visionarietà. I viaggi sono ricchi di storie e di stimoli di ogni natura. La stanzialità è più avara. Stare in un luogo solo può essere limitante. La stanzialità è asfittica. Il genere umano sembra più vario nei viaggi o almeno sembrano esserci molte più tipologie umane. Quando si risiede in un unico luogo poi molto spesso non sembra accadere mai niente. La realtà sembra immutabile. Il tempo scorre a rilento. Corsi non è stanziale. Sa che i viaggi possono dare valore aggiunto alla vita e alla poesia. Ci vuole coraggio, intraprendenza, talento per saper non solo amare i viaggi ma anche nel saperli trattare e nel farli diventare un filo rosso che finora collega i suoi versi incisivi, come ha fatto e fa Corsi. La sua per dirla in termini psicologici è una osservazione partecipante. Osserva, vede, trascrive, registra tutto. Come ci insegna la microfisica osservare significa anche modificare la realtà. Nella vita di tutti i giorni non esistono specchi unidirezionali per osservare senza essere osservati.

L’autore sa essere colto ed intellettuale (lo dimostrano le citazioni), sa essere metafisico senza cadere nei sofismi e nei filosofemi, sa essere esistenziale senza essere esistenzialista, sa guardarsi dentro senza incorrere in psicologismi, sa essere attuale senza finire nei sociologismi.

Corsi sa bene che la poesia è soprattutto autosuggestione, ma intuisce perfettamente anche che l’attrazione (sessuale, emozionale, intellettuale, economica) è più forte della prima. Il mondo, volenti o nolenti, come scrive Gadda va avanti per “interesse ed erotia”. Allo stesso modo Corsi scrive anche per il desiderio biogrammatico di immortalità, per lasciare una traccia di sé ed è una aspirazione più che legittima oltre ad essere un meccanismo adattivo senza cui non esisterebbe la religione, la cultura, quantomeno quella umanistica, e l’umanità che va avanti perché le persone vogliono perpetuare il loro DNA. Ogni poeta che si rispetti come Corsi inizia sempre un corpo a corpo con la morte. Ogni poesia che si rispetti vuole trascendere la finitezza umana. Non a caso chiudono questa raccolta due esemplari poesie sulla morte:

“ho visto la morte diverse volte

e quasi mai era violenta, eccetto forse

nel caso di piccoli ricci, o tassi, oppure

rospi di media e grossa taglia, allora

mi chiedo, cuore mio, perché ancora

ti spauri dinanzi alla fine naturale

delle cose, perché non ti rassegni

a chiudere gli occhi insieme

alle persone care, perché mai

ti tradisci gonfiando d’aria,

l’impressione di non aver più,

non aver mai, non aver sempre? “

“quante cose ancora nella vita

ma poi c’è sempre lei, la morte,

tutta la specie umana, le piante

e gli animali, stasera, mio dolce

amore, copriamo con un panno finissimo

gli specchi, togliamo le pile

agli orologi, non senti?, fa freddo

e che pace, ora, nei tuoi occhi.

La sua poesia è anche metafisica della coscienza (come si evince soprattutto dalla prima parte: “Fissavo l’ombra sul muro e per esercizio/ contemplavo le forme disfarsi agili/ lungo il filo delle mattonelle così, per più giorni…). Ogni poeta valido come Corsi dimostra con i suoi versi che la poesia è conoscenza provvisoria (diversa dalla conoscenza intesa come corpo organico di nozioni) degli umori, degli stati mentali, degli stati di coscienza fino ad arrivare agli strati della realtà, alle leggi del mondo. Secondo i più recenti studi psicologici lo stesso inconscio fa parte della coscienza, anche se noi non ne siamo assolutamente consapevoli. Potremmo quindi affermare che inconscio non è ciò che resta al di sotto della nostra soglia di coscienza ma piuttosto al di sotto della nostra soglia di consapevolezza, come evidenzia Giuseppe Genna nel saggio “Io sono”. Corsi descrive corrispondenze (“perfetto e intatto come un lago antico/ il cortile domestico si è spopolato/ lasciando spazio alla grazia armata/ delle forsizie, all’invasione sottile del pesco/ giapponese, alle sommosse/ quiete del rosa in grappoli/ sui rami della magnolia./ nascono dalla terra e alla terra ritornano/ i lievi bollori dell’asfalto,/ si scioglie l’accorata preghiera/ della gramigna festosa/ resistente di fronte a dio/ e all’evoluzione ordinaria della specie”), tace riguardo alle teofanie (ma quel tu a cui si rivolge potrebbe essere la persona amata come Dio. Non poniamo mai limiti alla polisemia), talvolta riporta alla luce sensazioni ed impressioni non pienamente colte, ripescandole dalla cosiddetta zona morta della nostra consapevolezza. Poi ricompone, amalgama, sintetizza sia ciò che è ctonio sia ciò che è già manifesto al primo colpo d’occhio. Il poeta descrive sempre il fiume carsico della psiche. Corsi ci dimostra con i suoi versi che anche quel che ritenevamo l’inconscio (individuale, collettivo, cognitivo, istintuale) più remoto ed arcaico è in realtà prossimo alla coscienza, cioè è preconscio. Secondo Wittgenstein l’io non è altro che “una lampada” nel cui “telaio passano una costante successione di luci”. Il grande filosofo raffigurava con questa immagine il flusso di coscienza di W. James. I versi di Corsi rappresentano ad ogni modo la sua autocoscienza, il suo Sé autobiografico, ma anche il mondo. Per ora non so se tra la coscienza o i viaggi cosa sia struttura portante del suo dettato e cosa invece sia solo risvolto tematico: vedremo meglio in futuro quale sarà la sua linfa vitale o se addirittura entrambe le problematiche saranno ugualmente importanti. Tutto ciò non è prevedibile perché la vera poesia come quella del Corsi è irrazionale, infrarazionale, sovrarazionale, a tratti è persuasione occulta, ma non ha mai una sua linearità, una sua logica sequenziale (se A allora B), al massimo ci imbattiamo in giustapposizioni. Dietro ad ogni accenno, ad ogni scorcio di paesaggio, ad ogni flash, ad ogni fotogramma c’è sempre però lo sguardo vigile, attento di una delle voci più significative tra i poeti nati negli anni ottanta. La poesia di Corsi non ricerca la consolazione né lo sfogo, non è una semplice esternazione e neanche un atto di accusa, ma analiticamente fa riemergere l’ignoto. La tradizione letteraria è conoscenza pregressa. La poesia è ascolto di sé, è maieutica interiore. La parola poetica in questo senso è una sorpresa, un evento inatteso prima di tutto per lo stesso Corsi, che rappresenta fedelmente anche i lati della realtà odierna e che oggettivizza con freschezza e fluidità il suo esserci senza mai farne una questione esclusivamente privata e personale: non si può chiedere di meglio alla parola poetica dei giovani di oggi, visto che la poesia contemporanea è lontana dal fare la rivoluzione, dal salvare l’anima, dal riscattare e dall’essere segno di rivalsa, per fortuna o purtroppo.

Davide Morelli

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Marco Corsi. Nato in Toscana nel 1985, vive a Milano dove lavora nell’editoria. Ha curato alcune rassegne di poesia e pubblicato diversi contributi dedicati alla poesia italiana contemporanea, una monografia su Biancamaria Frabotta, un libro intervista con Franco Buffoni, e curato un volume di testimonianze critiche per Anna Cascella Luciani. Sue poesie sono apparse su importanti riviste e blog letterari. La sua prima silloge, Da un uomo a un altro uomo, nel 2015 è stata inclusa nel Dodicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos) e nello stesso anno ha vinto il Premio Cetonaverde Poesia sezione giovani. Nel 2017 ha inaugurato la collana “Lyra giovani” di Interlinea con Pronomi personali (Premio Maconi e selezione Premio Fogazzaro e Premio Ceppo).