Silvio Ramat SU DAVIDE PUCCINI, La stagione del mare Ladolfi 2018

Silvio Ramat SU DAVIDE PUCCINI, La stagione del mare – Ladolfi 2018

Un ragazzo di tredici anni, orfano di entrambi i genitori, vive con una nonna piena di premure per quest’unico nipote. Un amore ricambiato. Ma si capisce che non potrà svolgere lei da sola i cómpiti anche del padre e della madre, dolorose lacune avvertite, sia pur senza piagnistei, già all’alzarsi del sipario sulla vicenda di Renato, alunno di terza media in una cittadina marittima che il libro non nomina ma che certo corrisponde a Piombino, dove è nato e tuttora abita l’autore di questo romanzo, La stagione del mare. Filologo e commentatore di classici, approdato per studiarvi fino alla laurea in una grigia Firenze post-alluvionale (il novembre 1966, dopo il febbraio 1961 della memorabile eclissi di sole, ci porge due coordinate temporali utili a inquadrare gli avvenimenti narrati; e aggiungiamovi qualche scettico ragguaglio sulle agitazioni studentesche del Sessantotto), Davide Puccini sta rivelando nei nostri anni una schietta capacità creativa sia nel verso che nella prosa. Quattro raccolte di poesia (fra le altre Madonne e donne, 2007, e Il fondo e l’onda, 2016) e un impegnativo romanzo (Il libro e l’anima, 2015) lo dichiarano su un ritmo di invidiabile continuità.

Con una formula un po’ troppo facile, potremmo leggere ne La stagione del mare l’ennesima modulazione di quel paradigmatico transito – a volte brusco, altre volte lentissimo – da adolescenza a maturità che si usa definire “educazione sentimentale”. Se non fosse che nel caso di Renato la trama fitta di minuziosi particolari s’interrompe quando ancora il passaggio non si è compiuto; anzi lascia improvvisamente a secco di notizie il lettore che invece ne vorrebbe avere sugli sviluppi di una situazione talmente sgradevole e ingrata che ne risulta troncato il ramo maestro della vicenda, indispensabile al processo ‘educativo’ del protagonista. A scomparire da quel punto in avanti è infatti Marino, che funge socio e controparte di Renato: a lui il ragazzo ha concesso la propria fiducia, su di lui ha investito molte speranze. Ha pressappoco l’età dei suoi genitori; e mentre un incidente in fabbrica ha tolto a Renato il padre, Marino ha perduto da parecchi anni l’unico figlio. Nessuno dei due pensa davvero che quella loro confidenza reciproca abbia a costituirsi in ‘famiglia’ ma si frequentano volentieri e in una reciproca sincerità. Ammirato inizialmente dai ragazzi del luogo per la sua abilità di “bandito”, cioè di pescatore di frodo che butta la bomba in mezzo al branco dei pesci dove la polizia non vigila, Marino è notoriamente “un poco di buono” che ha fatto anche esperienza della galera. Ma se quelle sue gesta da fuorilegge sono la prima fonte di attrazione, molto di più importano gli ammaestramenti ch’egli dà (man mano e quasi con delicatezza) a Renato: su come si fa a fumare, a giocare a carte, a trovarsi una ragazza… Tutto ciò serve – servirebbe – a ‘promuovere’ il protagonista oltre gli impacci della fase adolescenziale; ma sarà una donna (l’amica di Marino), terzo e ambiguo incomodo, a provocare inopinatamente con la sua sfrontata impudicizia la rottura di quell’itinerario affettivo che legava sempre più l’uno all’altro il “bandito” e il protagonista (che narra in prima persona) in un tacito ma autentico patto di solidarietà.
Marino: nomen omen? Forse. Il mare è parola-simbolo in evidenza fin dal titolo; sfondo e superficie scrutata a più riprese dalla costa e dalla spiaggia, ma anche da dentro, nuotando o ragionando: anche d’inverno. Non c’è “stagione” che non sia “del mare”. Puccini riesce a spremerne la sostanza con esiti stilistici eccellenti: offrendo pagine, qua e là, ‘da antologia’. Ogni riflessione-descrizione in tema è condotta post rem, da un Renato adulto, anzi prossimo alla vecchiaia, padre e magari anche nonno: savio o rinsavito, in possesso di un equilibrio esistenziale e morale che le acerbe tensioni, materia del suo bel romanzo, non gli potevano concedere. Nelle ricognizioni dell’età matura il mare diventa una sorta di ‘stato’ dello spirito, altrettanto inquieto e vario ma al contempo solenne, sicuro di una sua identità perpetua, sottratta al moto volubile dei giorni umani.
I due capitoli finali mi ricordano – per come l’autore riferisce e giudica da saggio, senza facoltà di ripensamento – l’epilogo di qualche romanzo di Charles Dickens, dove il sommo narratore tira le fila per una specie di obbligo professionale nei confronti di chi legge ma non c’è quasi più nulla da raccontare poiché la storia degna d’interesse è già terminata. Conclusa, di solito, all’altezza di un apice drammatico; dopo di che, il resto conta ben poco. Ne La stagione del mare mi sembra che quell’apice sia (ne accennavo) all’imprevedibile spezzarsi di un’amicizia o meglio di un tragitto ‘educativo’ che il disilluso e avvilito protagonista dovrà provarsi a completare altrove, con altre guide e compagnie.