Richard Harrison “Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione” ( Round Midnight Edizioni, 2018) Lettura di Andrea Fallani

HARRISON COPERTINARichard Harrison “Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione” 
(Round Midnight Edizioni, 2018)

Lettura di Andrea Fallani

Due sono le linee di sviluppo della raccolta di poesie di Richard Harrison, On not losing my father’s ashes in the flood, (tradotta in italiano da Riccardo Frolloni, con il titolo Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione, Round Midnight Edizioni, Campobasso, 2018): una personale ed una collettiva, storica. Fin dalla prima poesia, che dà titolo all’intera raccolta, appare evidente come questi due temi, il padre e l’alluvione, apparentemente inconciliabili, trovino nella poesia un fertile terreno comune: l’urna contenente le ceneri viene data per dispersa inseguito alla tragedia che investì l’Alberta nel 2013, salvo poi essere quasi miracolosamente ritrovata in «a box of books and a remote-controlled car».

La tragedia personale, la morte di un padre tanto amato, è pretesto per portare alla luce l’irrazionalità, l’apparente insensatezza delle vicende storiche, oltre all’alluvione emergono, come relitti portati a galla dalla corrente, l’attentato alle Torri Gemelle, l’impiccagione di Saddam Hussein e molti altri eventi. La storia è rivisitata attraverso la memoria personale, a ciò che del mondo è arrivato agli occhi del poeta: in una realtà alluvionata, senza più alcun punto di riferimento, i modelli a cui rifarsi divengono il padre ed i miti dell’infanzia, supereroi dei fumetti e giocattoli. È il passato il tempo a cui Harrison torna più frequentemente, un passato che viene rivitalizzato attraverso parallelismi tra la propria infanzia e quella di suo figlio. Questo non significa rinuncia al futuro perché, memore della lezione di T.S. Eliot di Burnt Norton (il primo dei Four Quartets) «Time present and time past / Are both perhaps present in time future, / And time future contained in time past».

In accordo con la poetica eliotiana, che a sua volta muoveva dalla poesia cosiddetta metafisica del XVII secolo inglese, grazie al wit (termine difficilmente traducibile in italiano ma che potremmo rendere con «ingegno» o «intelletto») Harrison fa largo uso del paradosso per raggiungere un livello di conoscenza superiore a quello dettato dalla doxa, la credenza comune. Il poeta gioca con le parole, con le anfibologie e con i suoni come nell’onomatopeico «And isn’t it odd that it is not odd to talk of livingthings this way?» nel quale l’allitterazione di suoni dentali rimanda al rumore dei tacchetti sulla strada del verso precedente. Proprio a proposito di questa poesia (Found poem), nella quale viene messo in scena l’accoppiamento tra due insetti, nonostante l’autore riferisca di prendere come modello Margaret Lawrence, il tema rimanda all’archetipo di The flea di John Donne (nella quale una pulce che si nutre della mistress diviene metafora di un atto sessuale allo stesso tempo sacro e profano), il capostipite dei methapisycal poets, contemporaneo di Shakespeare. Con Donne più ancora che con Eliot, Harrison mostra di avere molti punti in comune: l’uso di paradossi, un eros mai sopito che emerge e divampa all’improvviso e, più in generale, una tendenza, costantemente bilanciata da un impegno morale, a fuggire dal mondo della storia per vivere in un universo privato; in realtà è il wit, comune a tutta la migliore poesia anglosassone, ad essere l’eredità maggiore del rinascimento inglese che Harrison rivitalizza e trasporta nel Canada; ma non si tratta dell’unica.

Un’altra eredità è infatti rappresentata da Shakespeare, che ritorna nei versi preferiti del padre, quelli che hanno accompagnato l’intera sua esistenza e che adesso segnano l’approssimarsi della morte: «Now is the winter of our discontent / made glorious summer by this son of York.». Questo frammento del Richard III, la più cupa delle tragedie storiche shakespeariane, dove l’aspetto pubblico del tiranno, la sua crudeltà politica viene messa in scena (per la tragedia personale del tiranno fa da controcanto Macbeth), recitato dalla voce del padre morente (in Now is the winter) è emblema di una fiera, disperata e vitale resistenza alla flood, in primo luogo l’alluvione dell’Alberta, ma che può essere intesa anche come un nuovo Diluvio Universale, di valori e ideali. Con le parole di un padre letterario, il padre biologico prende congedo dal mondo e dal figlio in un’atmosfera da sogno, durante una notte di metà inverno, rovesciamento della shakespeariana A midsummer night’s dream; è in questo momento topico che al poeta diviene chiaro quello è il leitmotiv di tutta la raccolta: «and I am taught that nothing is immortal / and awake forever». Niente è immortale tutto cambia, perfino il cambiamento stesso: «Everything changes, even extinction» viene detto a proposito dei dinosauri, ed è questa l’eredità del time past, il poco di cenere che rimane dei padri, biologici, spirituali o letterari che siano; ma è proprio da questo estremo residuo di un’esistenza che nasce una poesia nichilista intrisa di una tenue eppure caparbia speranza: l’intera poetica di Harrison è fondata su questo paradosso che riecheggia del montaliano «una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione».