Palissandreide di Saša Sokolov – Lettura di Paola Ferretti

SOKOLOV COPERT ROMANZOPalissandreide di Saša Sokolov (Atmosphere libri, 2019) 
Traduzione  a cura di Mario Caramitti

Il tracollo del tempo, la patria come caos:
Lettura a cura di Paola Ferretti

Un autore russo tra i più apprezzati in patria e in Occidente – dove tuttora risiede, dopo essere emigrato nel 1975 – arriva in traduzione in Italia con un romanzo “fantastorico” che, dato alle stampe nel 1985, si legge oggi come un classico del postmodernismo: Palisandrija. Di Saša Sokolov, classe 1943, era già stato tradotto in anni recenti La scuola degli sciocchi, un’opera che risale all’anno dell’emigrazione. Se in quel primo romanzo non si aveva un vero intreccio, ma “un reticolato di intrecci convergenti e divergenti” – come scrive in altra sede Mario Caramitti, traduttore e curatore del volume uscito nel marzo 2019 presso l’editore romano Atmosphere Libri – qui le storie si sfilacciano in infilate di vignette, sovraffollate di un ingorgo di personaggi-fantocci tra cui spiccano per rilievo e colore i protagonisti della politica sovietica, dalla Rivoluzione fino ai primi anni ’80 del secolo scorso. Tutti gli inquilini del Cremlino del settantennio che arriva al tempo di stesura del romanzo interagiscono in una promiscua compresenza che prescinde dalle date, e sono messi alla berlina attraverso i loro improbabili doppioni. Infantili o miserabili, sempre in combutta gli uni contro gli altri, vengono dotati di grottesche biografie immaginarie, in cui i titoli fantasmagorici si alternano a più modeste mansioni: se Berija è Conservatore Cardinale del tempo corrente e Brežnev Reggitorvicario, Chruš?ev è solo un grassoccio insegnante di grafologia e Andropov esordisce come “eccellente chitarrista” dal passato gitano.
   Inventato di sana pianta il protagonista, che ha il nome di un albero, Palisandr (e il tema arboreo si riaffaccia ripetutamente, nel testo), l’autore gli cuce addosso un’epopea che sembra riassumere, dentro i vari libri di cui è composta – Libro dell’esilio, Libro dell’ardimento, Libro della vendetta, Libro della missione – i vari cicli di un’impresa titanica che si risolve tuttavia in una sarabanda di episodi tra i più bizzarri e sconclusionati da seguire, che gli occupano l’intera esistenza. 
    Novello Macedone, l’eroe affronta nemici doppiogiochisti e autocratici intrighi che si dipanano a cavallo tra diverse epoche e latitudini; i suoi ardori carnali sono raccontati con un vocabolario da campagna militare, e le sue gesta altisonanti e bislacche si rifrangono in mille rivoli superflui dentro i molteplici universi narrativi che si accavallano ipertroficamente nel romanzo.
   Perché nel corpaccione di Palisandr, orfano dalla stazza imponente e dalla genealogia illustre, e in quello del romanzo, altrettanto straripante quanto a mole, le incarnazioni si susseguono e si intrecciano, indistinguibili agli occhi dello stesso protagonista e narratore (il quale ricorda i misfatti perpetrati col suo concorso alla corte di Caterina II ma ha anche memoria della sua presenza nel Medioevo russo). In una trama a rompicapo delle più elusive, si arriva allo “smascheramento” finale dell’ermafroditismo dell’eroe: come accade nel romanzo di Virginia Woolf – è il critico Aleksandr Žolkovskij a notarlo – questo Orlando russo che scavalca i secoli e plana da un’era all’altra si muove in qualche modo (e non senza impaccio) anche attraverso le identità di genere.
   Nonostante tutte le distorsioni spazio-temporali e le incongruenze inserite ad arte, nel romanzo vengono tenuti costantemente tirati tutti i fili che avvincono il narratore alle coordinate della società sovietica in cui è immerso: come un post-Nabokov che proprio quando sembra aver perso il controllo della sua scoppiettante macchina narrativa la riconduca, un attimo prima che deragli, sui binari della leggibilità, della plausibilità all’interno della dimensione fantapolitica inventata per incorniciare il testo.
   E sempre governando con destrezza e larghezza di mezzi stilistici tutti i sollazzi del gioco col Biografo alle cui cure il protagonista affida le proprie memorie. Parlando di sé come persona audens o usando pronomi al plurale, nominando se stesso col cognome – Dalberg – o con una serie inesauribile di appellativi. Perfino indulgendo (e non una sola volta) nell’auto-esegesi, che è però tutt’uno con la fattura dell’opera, in cui ad essere portata in superficie senza remore è la propria attrezzeria di narratore, amalgamata con incredibile coerenza nell’impasto della scrittura.
   Non un romanzo sembra volerci sottoporre Saša Sokolov, ma il raffazzonato eppure studiatissimo canovaccio che gli sta dietro, in balia di una inesausta, convulsa metamorfosi, così che possiamo assistere dal vivo a tutte le fasi della sua pluristratificata preparazione, in un continuo, simultaneo e irrisolto sviare da un modello narrativo all’altro senza prenderne sul serio nessuno. In un attacco ad ampio spettro portato, anzi, ai generi letterari come tali e agli artifici stilistici a cui essi si accompagnano: al romanzo storico come al thriller, all’autobiografia delle personalità illustri e alla fantascienza, al picaresco e al pornografico, al cappa e spada e all’operetta, senza tralasciare il romanzo di formazione e quello epistolare, il flusso di coscienza e il resoconto di viaggio. Tutto è polverizzato in schegge dissacranti, dentro i vortici generati dalla grafomania autofinzionale del narratore, per convergere in un romanzo “ideale” che li contiene virtualmente tutti, deformato compendio di tutti i possibili intrecci, generi, stili. Come dichiara lo stesso autore, ad un certo punto: “una cascata di romanzi che trapassano fluidamente l’uno nell’altro senza soluzione di continuità (…), secondo il famigerato principio della matreška”.
  La tradizione russa è richiamata attraverso un tessuto davvero debordante di citazioni – echi letterali, riecheggiamenti o allusioni cifrate che siano – in cui tutto è inglobato, di tutto ci si appropria con disinvoltura: la neve sarà “puškinianamente porosa”, a Sua Orfanezza basterà dire che dà un’occhiata al suo Breguet per far materializzare (ancora una volta) l’autore di Evgenij Onegin, sospirare “O foglie cadute” per rimandare immediatamente a Rozanov e lasciare che le sigarette di un personaggio portino un nome ironicamente turgeneviano: Fumo Patrio. Più volte evocato, Dostoevskij non potrà mancare alla vigilia del raskol’nikoviano attentato a Brežnev perpetrato dallo stesso Palisandr. Ineludibile, poi, “la domanda millenaria che incombe ogni giorno sopra ognuno di noi intellettuali russi inclini a interrogarsi”: “Che fare?”.
   Le piramidi di citazioni si sovrappongono in un’impalcatura in cui il rapporto dell’autore con il patrimonio letterario è in costante oscillazione tra dileggio e reinvenzione. Mai ossequio: nonostante la certezza di non poter essere scrittore senza le opere russe che lo hanno preceduto e di cui è intriso fin nel profondo, Sokolov non conosce mostri sacri che oltre ad essere adorati non possano essere anche sbeffeggiati nei loro tratti più riconoscibili, tirati fino al loro estremo limite, così da creare di volta in volta uno pseudo-Turgenev, un quasi-Gogol’, un finto-Radiš?ev.
  In una superfetazione dello stravolgimento parodistico in cui tutto è desacralizzato, e l’irriverenza dell’autore non risparmia nessuno, Majakovskij è uno psicopatico, Cvetaeva una “rinomata civetta” e collezionista di relazioni, Pasternak pronuncia a sproposito frasi stereotipate e perfino Solženicyn si copre di ridicolo. Mentre la Shaganè dedicataria delle liriche di Esenin cede il suo nome a una cortigiana depravata.
   La profanazione come chiave di lettura del mondo, largamente condivisa con l’orizzonte postmodernista, investe naturalmente anche le figure di autori, intellettuali e artisti non russi: nel prismatico corpo del romanzo lo spettro intertestuale si estende da Shakespeare all’Ulisse di Joyce, dallo “straziante nevermore alla Poe” a Sartre, da Flaubert a Freud e a Giordano Bruno, senza escludere concessioni alla cultura di massa dell’Occidente (Elton John, Pia Zadora). Il protagonista potrà imbattersi in Swedenborg non meno facilmente che in Vysockij, e suggerire di persona un finale alternativo a un Beckett stufo del suo Godot che non arriva.
  Questa modalità narrativa presuppone non soltanto una fantasia sfrenata, ma anche una totale assenza di inibizioni nell’esercizio della capacità associativa e combinatoria: Sokolov fa incontrare personaggi di romanzo e figure storiche, si diverte a immaginare Brežnev in costume da Casanova o ad attribuirgli una fisionomia da “filozoista” che “ha in gran fastidio la morte” e per questo accetta da un ministro africano con un passato da sciamano un unguento che gli assicurerà di vivere in eterno.
  Con una lingua fiorita e sboccata, in cui abissali abiezioni prendono forma in un amalgama ieratico/sguaiato che lascia a volte interdetti, l’autore assesta un colpo decisivo all’irreprensibile costumatezza stilistica e tematica coltivata in Russia lungo tutta la persistente stagione del realismo. Anche i momenti di puro lirismo che sgorgano quasi contronatura dalla sua penna blasfema si rispecchiano subito dopo nella loro parodia attraverso la riproposizione di immagini consunte.
   Come due secoli addietro per Sterne (e attraverso lui, in Russia, per Karamzin e i karamzinisti), le digressioni diventano i cardini del testo: improbabili, surreali, sgangherate, si avvolgono l’una sull’altra e ogni oggetto, ogni avverbio può meritarne una – quella che si apre con l’affermazione “Sì, amo le calosce” è forse tra le più gustose, insieme al passaggio sulle “ciabatte da museo” inserito nell’ultimo libro. I segni di punteggiatura sono oggetto di un’attenzione speciale: le parentesi assurgono a Epigrafe, un punto interrogativo messo tra virgolette può sostenere da solo una replica stupita.
   Ma la lungaggine come principio compositivo può rovesciarsi – con effetti genuinamente comici – nel paradossale invito a “creare in massima sintesi” da parte di un autore che si perita di “parlare la lingua del telefono”, e, da “artista minimalista” quale si proclama, inneggiare alla “laconicità come madre dell’espressività”. Nello stesso modo lo scempio dei piani temporali perpetrato nel romanzo può essere contrappuntato dalle dichiarazioni del narratore di “tenere alla cronologia come alla pupilla del suo occhio”.
   Di fatto, aprendo innumerevoli forbici temporali, Sokolov si affida al flusso di quel Nontempo che nel romanzo si intreccia con la stagnazione, e riempie pagine e pagine di eventi raccontati in allegra coabitazione gli uni con gli altri, così che Palisandr, “cronografo” e “cronista del tempo corrente”, può parlare di un “Eterno Presente”. Chiedendosi “in quali strapiombi sia precipitato il Nontempo che gli era stato concesso”, il protagonista appunta un’epigrafe per le sue “future memorie della vecchiaia”, e riconosce che “il Nontempo è nocivo, esiziale. Corrode la struttura della narrazione fino a una torpida irriconoscibilità”.
   L’idea della “memoria del futuro” è variata in tutti i possibili registri, dal macchiettistico all’esoterico. Come quando, esortato a dormire su un canapè, il mite zietto Iosif esclama: “Ma quale dormire? Avremo tempo nel Mausoleo per dormire”. Il già vissuto – sotto altre spoglie, in altre innumerevoli incarnazioni – il fenomeno che “in Occidente ha nome déjà-vu” diventa nelle mani di Sokolov una girandola impazzita: “E arriverà il giorno in cui i molteplicemente proiettati déjà-vu, con tutte le loro varianti, si fonderanno, oltre lo spettro della prospettiva, in un unico déjà-vu”.
   Le insistite immagini che fin dall’inizio della narrazione materializzano il tempo nei quadranti trovano degna epitome nella frase che chiude lo splendido Epilogo e il romanzo stesso: “E, mettendo in moto le lancette degli orologi dell’universo – orologi con milioni di brillanti del firmamento e miliardi di carati – sono scrosciati sotto forma di ricordi tutti gli altri secoli”.
  Innumerevoli i momenti di semiseria riflessione sulla Russia, i tentativi di delinearne i controversi contorni e coglierne l’essenza, soprattutto una volta oltrepassate le sue frontiere: è dall’esilio che si fa maggiormente sentire il bisogno di “tornare a scegliere destini russi”, e “riavvitarsi sulle avite spirali: chi ai lavori forzati, chi al ministero, chi sul lastrico”.
  Lo sguardo dal dirigibile con cui Palisandr lascia il paese, dal Cremlino innalzandosi di notte sopra la capitale, scopre una Russia ideale: “Dopo aver acceso migliaia di tiepidi lumini da notte, il paese dei ?ajkovskij e dei ?i?ikov, dei Sidorov e dei Petrov, dei malvagi e dei geni, prima di addormentarsi leggeva le sue epopee”. Così come l’Europa stesa ai suoi piedi, condensata nel fasullo Granducato di Belvedere, è solo “elegante ninnolo” d’oltrecortina, “tutta guglie e raggi di bicicletta”.
  Allora per il nostalgico protagonista ormai emigrato, che ricorda come le sue incarnazioni precedenti siano avvenute per la maggior parte in Russia, la risposta alla domanda su cosa sia la felicità prende questa edulcorata, agrodolce piega: “Nel pieno delle mie facoltà mentali e mnemoniche, al calduccio e con un bel conto in banca, stabilirmi nella mia Patria, osservare le evoluzioni dei suoi fiocchi di neve, gustare i suoi mirtilli neri con la panna, e frittelline di farina o con uova, tendere l’orecchio alle campane che si sciolgono, agli arabeschi sonori degli instancabili uccellini e, per quanto a mia disposizione e in mio potere, contribuire alla sua grandezza”.
  Sul finire del romanzo, la natura bina del protagonista renderà conto di quella scissione dell’io con cui Sokolov fa narrativamente i conti fin dai tempi della Scuola degli sciocchi, e che in determinati punti dell’opera partorisce un’esilarante vocina, indistinguibile tra esterno/interno, a tratti eco francamente scurrile (non che l’autore stesso non se ne conceda ampiamente licenza), a tratti finto-ingenuo controcanto alla narrazione di Palisandr.
  L’ultimo libro accelera fino al parossismo: una volta svelata la sua identità di ermafrodito, e prima di approdare al Nobel per poi procedere al trionfale rientro in patria – richiamato ad Emsk (che sta per Mosca) con tutti gli onori – il protagonista sfreccia in lungo e in largo per il globo, con una lingua ricercata da viaggiatore tardo settecentesco, naturalista e ignaro (e la citazione di Candide lo posiziona nel tempo adeguato), accumulando vissuti sempre più inverosimili, mentre la ridda degli spostamenti fa girare all’impazzata “il carosello delle caleidoscopiche impressioni”.
  In questa parte ad essere preso di mira è prevalentemente Karamzin: gli stupori da “nobile viandante”, o da “Anonimo dalla Russia” al primo contatto con l’Occidente fanno il verso a quelli delle Lettere di un viaggiatore russo. Palisandr tutto ammira e tutto confonde: il vestibolo del castello in cui si installa gli appare decorato da tele di “Botticelli, Messina, Valpolicella, Lambrusco, Campari, Pernod e altri maestri del Quattrocento”. L’addio alla giovinezza che si consuma davanti allo specchio è un pezzo di karamziniana bravura, come indiscutibile, oltraggioso tributo a quell’autore è tutta la digressione parigina.
  Monumentale, sardonico, chiassoso, inarrestabile e spudorato, questo romanzo non in tutte le sue pagine avvince: la saturazione della scrittura che vi si produce non può non confondere, la proliferazione dei doppi sensi genera a tratti una sensazione di sazietà, l’auto-celebrazione della prolissità può avere effetti collaterali pesanti, alcuni momenti narrativi di dubbio gusto (che si dilungano per pagine) in cui si indulge nella rappresentazione dei reiterati assalti sessuali a dame senescenti, possono apparire lontani dalla nostra sensibilità (anche se è chiaro che la poetica dell’autore lo vede muoversi assolutamente a suo agio anche nei territori del kitsch).
  Tutt’altro che agevole tenere testa a un amalgama narrativo tanto dovizioso e composito, pur nella sua indubbia compattezza complessiva. Corposa, audace, plastica nel piegarsi tanto allo pseudo-sublime quanto al lubrico paludato, la lingua del traduttore prende una vita sua, fatta delle innumerevoli invenzioni di cui fiorisce. Nella resa di Caramitti – che nella postfazione illustra alcuni punti salienti del suo lavoro – converge davvero mirabilmente una moltitudine di strati stilistici e linguistici appartenenti alla nostra cultura. Senza mai farci perdere la sensazione di essere di fronte a uno dei più travolgenti capisaldi della letteratura russa degli ultimi decenni.