Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio editore, 2018) – Lettura di Alfonso Guida

nel fermo di polvere 600x600MARCO ERCOLANI, “NEL FERMO CENTRO DI POLVERE”
(Il Leggio editore, 2018)

Nota di lettura di Alfonso Guida

Araldo e Arcano: i versi oscillano tra questi due poli che si fondano sull’ immobilità, uno scambio di espressioni rigide e di immagini lievi, quasi aeree. Marco è inarrestabile. Cerca “parole nuove”. Usa la bacchetta del rabdomante innamorato, non le ascisse e le ordinate di una contenzione logica, costruita dalla logica razionale, dal pensiero lineare, anche se la filosofia sbuca tra sillabe pregne, con la consistenza del fango fatto acqua e del labirinto fatto cattedrale. Il tormento di Marco è restare coi piedi che vorrebbero solcare la via complessa della verticalità, di un viaggio solo ed esclusivamente interiore che ben definisce i sotterranei del verbo e la sue esalazione. Sembra che un lungo respiro non interrompa mai le sue tracce. È un pensiero che cavalca l’iconografia. Quale? L’iconografia delle terre bagnate dal mare, dall’humus ondoso, una bianchezza schiumosa che tenta di mostrare le fissità, i fondamenti, la solidità. Parole salde, lapidi di un nuovo e vecchio “cimitero Marino”. Non è la roccia detritica e ghiacciaiosa dell’amato Celan, ma una striscia di confine tra Valery e Frenaud. Qui la poesia parla della poesia. Ha il dovere della musicalità, né può essere altrimenti per chi abita in una casa colonica tra il verde dei fondali e il turchese dell’aria senza fratture. “Trascrivere con giustizia”, detta Marco. Si può non essere fedeli alla nascita della parola? Si può spostare l’improvviso o la folgorazione su un diverso piano gnoseologico? Il presente, qui, o domina il passato o tenta di scarcerarlo, di farne materiale purificato mediante il respiro umano e il fuoco trascendente da cui si originano i versi. É una sintetica poetica dell’orlo e dello strapiombo. Non ci si butta giù, si sta fermi in cima. L’acme diventa il nucleo. La direzione della fiamma ispirativi include i minuscoli moti del fango e il portamento deciso della salamandra. Tra paesaggi che evocano oggetti di navigazione, tra remi, navi, porti, nascoste gomme, corde, funaioli, guizzi di pesci, si fanno strada posizioni di grazia che indugiano tra sensazioni terrifiche e immaginifiche. Perché Marco non si ferma davanti alla dimora della sua nascita? Perché cerca il “verde” che precede l’indistinto metallico e l abbondanza del mare? La poesia di Marco spinge a chiedersi. La sua lapidarietà carezzevole non è un salmo o una legge, ma un esperienza sensuosa che aggroviglia la presupposta quiete del lettore. Presente è il pensiero di un cammino comune, solidale, il sodalizio umano de La Ginestra Leopardiana, il necessario vedere in sé stessi l’io come altro secondo la formula Rimbaudiana e il necessario vedere l’altro come alterità, interlocutore, creazione di dialogo. Per Marco, forse, scrivere non aiuta a capire. Lo dice nettamente: “Chi scrive per capire il mondo/ne subirà il definitivo addio”. Si tratta di frammenti poetici compiuti che fanno capo a un vertice ontologico, a una fonte che sprigiona fluttuazioni. Armonia e catastrofe non collimano. Si cerca la perfezione sferica delle note su uno spartito. Si invoglia a vedere persino nel buio più acceso, dove affiora la speranza tutta umana di un incontro. Il buio è piatto e ha bagliori nei suoi fondi. L’intero libro è un tentativo di sondare le abitazioni sommerse per portare alla vista le archeologie, le strutture, la matematica segreta dell’hordo naturalis e del cielo, di quella “celeste lentezza” che in Char si fa asse, meridiano. Spesso sfugge nell’aria la materia. Il labirinto è la stanza degli specchi, ma la scala è solo un riverbero “da cui salire”. Essere noi, camminando insieme: è chiaro il progetto. Marco fa domande al ventaglio delle possibilità: guarire? Salvarsi? L’immaginazione lascia il posto al sogno. La verità finisce per esistere solo se diventa visione, scorcio onirico di un paesaggio tenue, rigoroso, che cerca sempre più schiarite e orizzonti non decomposti, forse appena inceneriti. Il nulla è dove si torna per tacere. Le nebbie devono dileguare se si vuole conservare nel proprio bagaglio esperienziale la testimonianza. La spola si esegue tra ciò che viene sotterrato e il visibile, spesso terrorizzato. Emerge la speranza inventata o paradossale “di un giorno senza morte”. Questo poeta tiene a cuore una lotta contro le distruzioni ancillari della morte. Il sopravvento è il nero del pozzo che assorbe la salda fattezza della pietra. “Scrivi senza pause”. È imperterrita la volontà mentre la debolezza umana rimane nel cono delle bassure inferniche. In questi versi albergano transitorietà e presagio del definitivo. La morte non è una smorfia spaventosa. Si diluisce, si dirama. Scompare in attesa di nuove scene. Forse la mente usa solo maschere efficaci per una sopravvivenza più potente di ogni fantasia di sparizione. Tutto, in queste poesie, poggia sullo stesso piano, l’intera vicenda si annoda e si snoda in un solo girone. L’insonnia si trucca da inimicizia: resta la testa sul cuscino, i piedi fermi, in un attesa che non smette, in una speranza che sinuosamente arranca si trascina. C’è una guerra in corso dopo l’azzurro. Si combatte senza escludere cielo e mare, innocenza e naturalità, sotto il fumoso salmo che Marco estrae dal filatterio della morte e dei morti, i soli che l’eterno accoglie.