Marco Colonna “Ho scritto questo salto” (Fara editore, 2019) – Lettura di Valerio Ragazzini

COLONNAMARCOCOPMarco Colonna “Ho scritto questo salto” (Fara editore, 2019)

Lettura di Valerio Ragazzini 

Questa riflessione sull’ultimo libro di Marco Colonna dal titolo Ho scritto questo salto (Fara Editore, 2019) nasce principalmente da un disaccordo, da una stonatura. Nella prefazione scritta da Pietro Caruso leggo: “La poesia di Marco Colonna è cosmogonica come orizzonte e molecolare come scrittura. Per cercare di penetrare la sua poesia bisogna provare le emozioni del funambolo. Mai guardare in basso, procedere a testa alta, asciugarsi le mani con il gesso della razionalità senza grossolanità dell’esistenza greve”. Per quanto alcune di queste affermazioni possano essere giuste, mano a mano che procedevo nella lettura, verso dopo verso mi accorgevo che in quelle poesie non ritrovavo quel sentimento di sprezzo del pericolo propria del funambolo.
Quando penso ad un uomo che percorre una fune tesa nel vuoto, non provo un senso di leggerezza. Restare sospesi a molti metri di altezza, per noi che non abbiamo le ali, comporta paura, concentrazione, pericolo e soprattutto tempo. Tempo per imparare le leggi che regolano l’equilibrio, tempo per cogliere i capricci del vento e dialogare con le correnti che cercano di spazzarci via come polvere. Così, dopo un lungo lavoro, numerose cadute, si inizia a cogliere un granello, un’infinitesima parte della levità che provano gli uccelli in volo.
Ma per fortuna non ho trovato nulla di funambolico in Colonna. Se c’è una cosa di cui proprio non sentiamo il bisogno, è proprio di poeti che ci dicano che va tutto bene. Diffidare sempre dai poeti sprezzanti che lodano il bel cielo del mattino o che vi esortano ad apprezzare la vita per i doni che ci ha dato. “Lo scrittore non è un responsabile padre di famiglia, ma è piuttosto un figlio ribelle che obbedisce al proprio demone” diceva Claudio Magris.

In tutto il volume di poesie, dietro al salto, alla libertà conquistata, c’è sempre un’ombra dolorosa che s’affaccia su di un abisso.

La prima parte del libro intitolata Della realtà si apre con il balzo di una ragazza da un parapetto. Colonna pone fin dalla prima poesia il punto in tutta la sua difficoltà: la ragazza fa un salto ed esce dal presente. La ragazza sembra entrare in contatto con il suo non-essere, con tutto ciò che non è stata, quasi che la vita e la morte insieme costituissero un unico frutto da dividere in due parti, quello che si è stati, e quello che non si è stati. Le parole della ragazza sono dure, scolpite nel cemento; il suo corpo si incunea proprio lì, tra la libertà e la morte. Colonna poi ci trascina sul ponte Morandi e poi sulle rive del fiume Milicia a contare le vittime dell’esondazione; ci porta dove la gente scompare, dove resta un vuoto accanto a noi.
Ecco allora aprirsi davanti ai nostri occhi la seconda parte Mise en abyme (Messa in abisso), l’autentica voragine dove è inevitabile perdersi:

Qui siamo siete carne / indistinguibile dal cielo / sarà di noi parola / brividi a fior di pelle / quando dei vivi gli animi / saranno pugni ed armi bianche / e il verbo di bocca in bocca / prenderà radici e diverrà / suono del risorgere perfetto.

In questo abisso i versi si fanno labirintici, prendono il via cantilene, aforismi, vortici di parole. Il poeta sprofonda e nelle correnti di buio riemerge di tanto in tanto, e il suo occhio coglie un accenno di resurrezione. Il bagliore lontano affiora nelle tenebre, si insinua in cerca della mano del poeta. In questa lunga notte la lotta è durissima.

In questo sterminato / microcosmo una voce / che ci avvolge vegetale / le raglio che si estingue / nell’umana parola morente / c’è l’immergersi più attenti / nel legarsi agli invisibili / alle madri alle radici / alle case degli assenti / luce che comprende / smarrimenti oscurità.

In questo abisso si ritrova il dolore concreto e tremendo, ricordi di cui disfarsi, porte che si aprono su ricerche vane; in questo abisso diventa necessario far ordine, cancellare, Disboscare le parole / tornare al deserto delle lettere, ad una realtà minima, purché vera. Soltanto così le macerie tornano bastioni. Cosa resta allora? Restano vuoti da colmare:

Di questa chiesa / restano le nuvole / che guardano attraverso, / mura crollate nell’abisso / della dimenticanza nostra.

Le tre parti che compongono il libro disegnano così un trittico che va dal dolore fino alla quiete del poeta, il quale ha imparato a vivere tra i ruderi dell’esistenza. Nel mezzo sta appunto l’abisso, la fossa entro cui si è inumati, la grotta buia dove giacciono le nostre membra in attesa di essere riscoperte, in attesa di resurrezione.

Ecco, io non vedo Colonna sospeso sul baratro, in bilico sulla corda, non lo vedo come un “leggiadro scalatore”; lo vedo nel fondo dell’abisso a togliere manciate di terra, aggrappato alle radici sporgenti. Qui, tra l’ubriacatura di alcuni aforismi e ‘taoismi’, tra soste e scoraggiamenti, si intravedono i sogni perduti e le occasioni mancate. Nella parte centrale, nel cuore del libro, dove i versi si fanno più difficili e ambigui, si risale verso la superficie un pugno di terra alla volta, fin dove il poeta potrà bagnarsi nuovamente nell’azzurro del cielo.