Conceiçao Lima – da “La dolorosa radice del micondó” (traduzione di Chiara De Luca)

Conceiçao Lima

Conceiçao Lima: Nata a Santana, isola di São Tomé, São Tomé e Príncipe, l’8 dicembre 1960, ed è cresciuta nel suo paese, dove ha svolto gli studi primari e secondari. In seguito ha studiato giornalismo in Portogallo. Nel 1993 ha fondato il settimanale – oggi estinto – «O País Hoje», di cui è stata direttrice. Si è diplomata in Studi Africani, portoghesi e Brasiliani al King’s College di Londra e ha ottenuto un Master in Studi Africani, con specializzazione in Governo e Politica in Africa presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra (SOAS). È stata per diversi anni giornalista e produttrice dei servizi in lingua portoghese della BBC a Londra. Tornata nel suo paese, ha diretto la TVS, Televisão São-Tomense. Attualmente lavora come giornalista free-lance e collabora con diversi periodici. Per la casa editrice Caminho di Lisbona ha pubblicato, nel 2004, O Útero da Casa, nel 2006 A Dolorosa Raiz do Micondó e nel 2011 O País de Akendenguê.  Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese, francese, italiano, serbo-croato, turco e arabo. Sue poesie sono sparse in giornali, riviste e antologie di vari paesi.

 

Conceiçao Lima
da A Dolorosa Raiz do micondó, Editorial Caminho 2006
[La dolorosa radice del micondó*, in preparazione per le Edizioni Kolibris]

Traduzione dal portoghese di Chiara De Luca

 

 

*Il micondó, è una varietà di baobab africano, che può raggiungere ventitré metri di altezza e vivere oltre duemila anni. Il suo ampio tronco costituisce una riserva d’acqua e le sue radici si spingono molto a fondo nel terreno. In questa raccolta di Conceição Lima, il micondó, che nella tradizione assume anche una valenza sacrale, diviene simbolo del profondo scavo a ritroso nella memoria lungo le proprie radici, per risalire all’origine di sé.

 

 

JOVANI
lima 01
Jovani se chamava
e nunca o terá intrigado (como a mim)
o ítalo eco de tal nome.

Dele se diz que era filho da terra
o que quer dizer
que antes de seus pais
já os pais dos pais dos seus pais
haviam perdido da externa origem o registo.

Não consta que tenha viajado
além dos mil quilómetros da Casa:
era meão de estatura
tinha família, filhos
amigos certamente
inimigos talvez
e um emprego miúdo
que não dava para poupanças.

Ao castelo de madeira retornava
num final de tarde igual a tantos
quando a vencida bala lhe travou
sem anuncio o passo.

Setembro era o mês de 1974
ardia em fragor a voz colectiva .
na praça marchava a colónia
por um hino outro e nova bandeira.

De pronto proclamou o país infante
a glória do seu sangue.
Trovas acharam no acaso grandeza
os filhos choraram somente a sua perda.

Os mártires — dizem — sao seres excepcionais, raros
a certa luz destinados.

Não era essa, suponho, a sua sina.

Suspeito agora, ao pensar no seu corpo tombado
sem estandarte, sem coroa, apenas morto
que Jovani não era grande nem pequeno —
tinha do precário labirinto o tamanho justo.

Guardou planos, afectos, rancores.
Plantou algures um olho de mutêndê,
um pé de jaqueira. Tinha sonhos.
Respirava.

Indagarei por seu perfil de sombra e avenida
o espectro da proletária camisa —
amanhã, o enigma negado ao transeunte.

Não pensarei em milagres, não pensarei
na crucificação em que um homem renasceu
sem saber ao certo porque caía.

 

 

NA PRAlA DE SÃO JOÃO

Há séculos que a sua fronte taciturna
desafia a premonição das estrelas —
os rijos movimentos, o solitário remo
a herdada sapiência de pressentir
o cheiro da calema e a mandíbula do tubarão.

Ele que acredita em deus e nos deuses
na bondade dos amuletos, na ciência dos astros
na falível destreza dos seus braços
há séculos que parte com a alvorada
sem ninguem o ver.

Todos os dias aguardamos porém o seu retorno —
a brancura do sal nos musculos retesados
o impulso final
e a canoa implantada no colo da praia.

Em seu rasto perscrutamos ao cair do dia
os limites do mar
Por seu vulto ganham nova pressa
os passos das mulheres
o tilintar das moedas, o pregão das palayês

E se enchem de falas as feiras
ao entardecer.

Deste lado, a outra margem do infinito
onde o crepúsculo saúda o regresso
de lá do horizonte, do hemisfério da espuma
da linha oculta no azul espesso
do lugar onde a água só conhece a voz da água.

Nós te aguardamos
mercador lunar, despercebido guerreiro
e ao brilho das escamas que revelas
Pois sem ti a praia seria apenas praia —
o perfil do mar, a queixa do vento
  ou a nudez de anónimas pegadas na areia.

 

 

VERSÃO DE DESERTO

Trazido não sei par que apelos, urgências
Vieste impugnar o momento que me cerca.
Demora — conclamas — a clara voz em minha boca.

Peço-te porém que repares:
não agonizam dunas nestes campos.
Aqui não jazem ossadas sem registo
nem apodrecem espectros de
perdidas caravanas.
Nenhum trilho foi abandonado
e não reneguei
Não, não reneguei
o nome do pai do meu pai.

O meu deserto é a vertical semente de um barco.
o areal (seu brilho de nada e de lago)
não é senão a metáfora de uma horta
talvez uma projectada cisterna.
Esta claridade nos olhos do griot cego
este reflexo que obscurece a luz do dia
não irradia de um céu empedernido —
a minha fome não é a maldição
do velho deus inclemente.
E todavia devora-me a cicatriz da penúltima batalha
e tenho por estigma
a memória de um longo fratricídio.
Mas estou aqui
sob este sol que alucina
a savana ao meio-dia.
Aqui, sob este toldo rasgado
onde envergo a sede dos meus ossos
e perduro sem jardim nem chuva
sem tambores nem flauta
sem espelhos,
companheira do tempo que amarra
as minhas veias ao umbigo do poço.

Não, nenhum trilho foi esquecido
e venero o profano nome do pai do meu pai.

Lenta a vertigem vai esculpindo
os murmúrios de um rio incerto —
planto estacas
em redor da vigília dos meus mortos.
Não anuncio.
Tardo e não prenuncio reino ou bismo.
Não sou mensageira de vãos sacrificios,
épicas derrotas, novos caminhos.
Aqui onde o inferno acontece
neste lugar onde me derramo e permaneço
inauguro a véspera da minha casa.
O meu silêncio franqueia
o umbral de qualquer coisa.

 

 

Traduzione dal portoghese di Chiara De Luca

 

JOVANI

Jovani era il suo nome
e mai lo incuriosirà (come a me)
l’italico eco del suo nome.

Di lui si dice fosse figlio della terra
il che significa
che prima di suo padre
già i padri dei padri dei suoi padri
avevano perso dell’esterna origine il registro.

Non conta che avesse viaggiato
fino a duemila chilometri da Casa:
era di media statura
aveva famiglia, figli
amici certamente
nemici forse
e un piccolo impiego
che non gli consentiva alcun risparmio.

Al castello di legno ritornava
in un tardo pomeriggio uguale a tanti
quando la pallottola vinta gli stroncò
il passo a sorpresa.

Era il mese di settembre del ’74
ardeva in un fragore la voce collettiva
nella piazza marciava la colonia
per un un inno altrui e una nuova bandiera.

Subito proclamò il paese infante
la gloria del suo sangue.
Strofe trovarono nella casualità grandezza
i figli piansero la perdita soltanto.

I martiri – dicono – sono esseri eccezionali, rari
a luce certa destinati.

Non era questo, suppongo, il suo destino.

Sospetto ora, pensando al suo corpo tumulato
senza bandiera, senza corona, appena morto
che Jovani non era né piccolo né grande —
aveva del precario labirinto la misura.

Custodì piani, affetti, rancori.
Piantò da qualche parte un occhio di mutêndê*,
una radice d’albero del pane. Aveva sogni.
Respirava.

Indagherò sul suo profilo d’ombra e viale
lo spettro della camicia proletaria—
domani, l’enigma negato al transeunte.

Non penserò ai miracoli, non penserò
alla crocifissione per cui un uomo rinacque
senza saper per certo il perché della caduta.

* Mutêndê: palma di piccole dimensioni, dalla radice particolarmente dura e profonda.

SULLA SPIAGGIA DI SÃO JOÃO

Sono secoli che la sua fronte taciturna
sfida la premonizione delle stelle –
i movimenti fermi, il remo solitario
l’innata saggezza nel suo presagire
l’odore di calerna, le fauci dello squalo.

Lui che crede in dio e negli dei
nel favore degli amuleti, nella scienza delle stelle
nella fallibile destrezza delle proprie braccia
sono secoli che parte con l’alba
senza che nessuno lo veda.

Tutti i giorni attendiamo comunque il suo ritorno –
il candore del sale sui muscoli contratti
l’impulso finale
e la canoa innestata nel grembo della spiaggia.

Sulla sua scia scrutiamo al calar del giorno
i confini del mare
dalla sua figura hanno nuovo impulso
i passi delle donne
il tintinnare delle monete, il grido delle pescivendole

E di discorsi si colmano i mercati
all’imbrunire.

Da questo lato, altro margine dell’infinito
dove il crepuscolo saluta il ritorno
di là dall’orizzonte, dell’emisfero della spuma
della linea celata nell’azzurro denso
del luogo in cui solo l’acqua
conosce la voce dell’acqua.

Noi ti aspettiamo
mercante lunare, guerriero inosservato
e nello splendore di squame che riveli
perché la spiaggia senza te sarebbe solo spiaggia –
il profilo del mare, il lamento del vento
o la nudità di anonime orme sulla sabbia.

VERSIONE DI DESERTO

Trascinato da non so che appello, urgenza
Sei venuto a impugnare l’istante che mi accerchia.
Resti — conclami — chiara voce nella mia bocca.

Ti chiedo comunque di ravvederti:
non agonizzano dune in questi campi.
Qui non giacciono ossa di sconosciuti
né marciscono spettri di
carovane perdute.
Nessun sentiero fu abbandonato
e non ho rinnegato
No, non ho rinnegato
il nome del padre di mio padre.

Il mio deserto è il seme verticale di una barca
l’arenile (il suo lucore di nulla e di lago)
non è che la metafora di un orto
forse proiezione di cisterna.
Questa chiarità negli occhi del griot* cieco
questo riflesso che oscura la luce del giorno
non emana da un cielo pietrificato –
la mia fame non è la maledizione
del vecchio dio impietoso.
Eppure mi divora la cicatrice della penultima battaglia
e ho per stigma
la memoria di un annoso fratricidio.
Ma sono qui
sotto questo sole che abbaglia
la savana a mezzogiorno.
Qui, sotto questo lacero tendone
dove indosso la sete delle mie ossa
e perduro senza pioggia né giardino
senza flauti né tamburi
senza specchi,
compagna del tempo che mi lega
le vene all’ombelico del pozzo.

No, nessun sentiero fu dimenticato
e io venero il profano nome del padre di mio padre.

Lenta la vertigine va scolpendo
i mormorii di un fiume incerto –
pianto paletti
attorno alla veglia dei miei morti.
Non annuncio.
Indugio e non preannuncio regno o abisso.
Non sono messaggera di vani sacrifici,
epiche sconfitte, nuovi cammini.
Qui dove l’inferno avviene
in questo luogo dove mi riverso e resto
inauguro la vigilia della mia casa.
Il mio silenzio sgombera
la soglia di qualunque cosa.

* Griot: poeta e cantore che svolge il ruolo di conservare la tradizione orale


Conceiçao Lima: Nata a Santana, isola di São Tomé, São Tomé e Príncipe, l’8 dicembre 1960, ed è cresciuta nel suo paese, dove ha svolto gli studi primari e secondari. In seguito ha studiato giornalismo in Portogallo. Nel 1993 ha fondato il settimanale – oggi estinto – «O País Hoje», di cui è stata direttrice. Si è diplomata in Studi Africani, portoghesi e Brasiliani al King’s College di Londra e ha ottenuto un Master in Studi Africani, con specializzazione in Governo e Politica in Africa presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra (SOAS). È stata per diversi anni giornalista e produttrice dei servizi in lingua portoghese della BBC a Londra. Tornata nel suo paese, ha diretto la TVS, Televisão São-Tomense. Attualmente lavora come giornalista free-lance e collabora con diversi periodici. Per la casa editrice Caminho di Lisbona ha pubblicato, nel 2004, O Útero da Casa, nel 2006 A Dolorosa Raiz do Micondó e nel 2011 O País de Akendenguê.  Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese, francese, italiano, serbo-croato, turco e arabo. Sue poesie sono sparse in giornali, riviste e antologie di vari paesi.

Fotografia di proprietà dell’autrice

Chiara De Luca traduce da inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese. Ha fondato e dirige Kolibris, casa editrice indipendente consacrata alla traduzione e diffusione della poesia straniera contemporanea Ha pubblicato la pièce teatrale Duetti (Ozzano dell’Emilia, Perdisa) e i romanzi La Collezionista (Rimini, Fara, 2005) e La mina (stra)vagante (Ibid., 2006). In poesia sono stati pubblicati i poemetti La notte salva (2008) e Il soffio del silenzio (2009) e le raccolte di poesia La corolla del ricordo (Ferrara, Kolibris 2009, 2010) e Animali prima del diluvio (Ibid., 2010). Ha tradotto una quarantina di raccolte poetiche. http://chiaradeluca.net.