Intervista a Stelvio di Spigno (a cura di Michele Bordoni)

Stelvio di Spigno è nato a Napoli nel 1975. Per Marcos y Marcos ha pubblicato nel 2001 Il mattino della scelta, nel VII Quaderno italiano curato da Franco Buffoni e nel 2015 Fermata del tempo. Gli altri suoi libri di poesia sono Mattinale (Sometti 2002, ed. accresciuta Caramanica 2006), Formazione del bianco (Manni, 2007) e La nudità (peQuod, 2010). Ha vinto il premio Andes, il premio nazionale di Calabria e Basilicata e il premio Sandro PEnna. Ha pubblicato due monografie: Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi (L’Orientale editrice, 2007) e L’artificio della naturalezza (Agiscom, 2015): SI occupa di rapporti tra letteratura e musica classica e contemporanea presso università e centri di studio privati. Insegna nei licei e vive a Napoli

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MB – Il tuo ultimo libro, edito da Marcos y Marcos a inizio giugno, porta come titolo Minimo umano. Nella sua brevità, il titolo si rende disponibile ad una serie di interpretazioni che trovano degli appigli convincenti nel testo. Ad esempio; potrebbe essere letto come la confluenza della dimensione cosmologica e umana (prendendo come dimostrazione l’esergo cusaniano che apre il volume), come la nostalgia per una civiltà in cui sta scomparendo “la gara a essere umano, anche un minimo”, o come la progressiva riduzione al minimo del corpo umano, la sua scarnificazione portata al limite (altrove ho parlato di processo alchemico di purificazione delle scorie). Sono interpretazioni corrette, plausibili?

SdS – Direi che sono tutte e tre corrette, anche se il mio cuore batte di più per la seconda. La storia (come costruzione umana) è storia di epoche, e c’è qualcosa che mi induce a credere che ce ne fosse una dove l’umanità dell’uomo fosse molto più sviluppata, un’epoca che non ho fatto in tempo a vivere. Le epoche si muovono e le confluenze tra ciò che chiamiamo cosmologico e la storia non sono intelligibili da noi uomini, ma ci sono e segnano cicli di rinascita e di declino. Noi siamo sicuramente in quello del declino. Di questo sono più che convinto, sicuro. Non c’è salvezza nella storia dell’oggi.

MB – Il corpo è uno dei protagonisti del tuo libro: alcuni versi, come “sapere che eravamo mani, / braccia, toraci, pubi, crani” o “muscoli furiosi in superficie, / metallo mio lucente, corpo”, espressioni quali “diaframma” e “ghiandola pineale” danno l’impressione di una centralità della dimensione embodied della tua poesia. Quasi a controcanto di questa “pesantezza” fisica, emerge, dalla terza sezione in poi del libro, la “grazia” dell’anima, che per un attimo sembra risolvere in un’aurea metafisica la disperazione delle prime sezioni. Il fatto della non compiuta risoluzione metafisica del dolore (testimoniata da versi come “Ma la terra è divisa dal cielo”, “E poi, chi coglierà di me il triste fiore / di questo purgatorio senza finale aperto?”, Ma l’anima che ho dentro, che mi nutre / a conati di asma, chi la solleverà?”) lascia il lettore in una fase di attesa e di dubbio. In che relazione sono la dimensione fisica e quella metafisica? Che ruolo ha il corpo (o l’anima) in questa dimensione dubitativa?

SdS – Quando si arriva a molto vicini alla fine, come è capitato a me più volte, è naturale porsi delle domande. La sezione centrale è la sezione delle domande e delle risposte. L’ultima poesia della sezione, Quel giorno, è una risposta, chiara è univoca. Per me si esce dal declino storico solo ritornando all’umano, cioè al Cristo morto e risorto. Non c’è un’altra via. Fuori di essa c’è, appunto, la corporeità, che per anni è stato un “felice” passatempo ma che ora mi appare opprimente e decadente, e c’è il dubbio, che ti corrode il cervello fino a farti impazzire. E allora, scavando sempre più in profondità, sapendo che la nostra visione di specie è comunque limitata, accettare la bellezza, la misericordia, la possibilità di redenzione intellettuale e fisica del Cristo, è l’unica realtà praticabile, perché è l’unica in grado di dare risposte agli interrogativi che ci interpellano e ci tormentano.

MB – Il libro si apre con una poesia dedicata a Alfred Schnittke: “Tu che facesti la riforma tonale / a partire dai tuoi sensori remoti, / sapevi e nascondevi che solo andando indietro, / con un diluvio di archi e applausi campionati, / c’era salvezza, se non totale, di una voce / che prenda ancora vicenda con l’umano […] ti scrivo non per lode, né per ringraziare, solo perché mi hai svelato una via da seguire”. La musica (contemporanea) sembra avere un ruolo chiave nel libro, specie grazie alla sua capacità di trasformare i frammenti del passato in fibre di un tessuto tutto presente. Questo discorso è anche riferibile ad altri compositori? Anche ad altri autori della tradizione letteraria?

SdS – Questo discorso è ben presente a molti compositori venuti fuori negli anni ’70 e ’80, specialmente da quel carcere a cielo aperto che è stata l’URSS: Kancheli, Pärt, Gubaidulina, solo per fare i nomi più celebri. Ma anche i tedeschi Rihm e Trojahn, diventati celebri nello stesso periodo, la scena minimalistica americana di Glass e Adams, ci ricordano cosa dovrebbe essere la poesia e la musica: un viaggio che si svolge secondo (e non contro, come nelle avanguardie) il piacere dei sensi, senza pretendere di voler stravolgere quella che è la missione del linguaggio (musicale e poetico) ossia quello di comunicare e creare una relazione tra gli uomini e la loro umanità anteriore e genetica, ossia la loro essenza più pura. L’arte è, o dovrebbe essere, questo, credo. Tra i poeti italiani non vedo personalità di questa statura, almeno tra quelli del periodo che abbiamo considerato: la generazione dei Bellezza e dei Cucchi, per intenderci, mentre tra i “maestri paludati” vi sono personalità di assoluto rilievo che questo orientamento estetico lo hanno seguito senza avere però un’adeguata fortuna editoriale: parlo di Rodolfo di Biasio e di Achille Serrao. Aggiungerei anche Michele Sovente, che è un poeta di livello superiore, e i più giovani De Signoribus e Mario Benedetti, con i quali farei cominciare la storia della poesia del ventunesimo secolo.

MB – “La mano trema cercando questi versi. / Con loro, negli anni, ho fabbricato / il sortilegio di un ricordo futuro. Mi pare / di vederla: poesia come ruota di mulino / che accecava la sorte e portava refrigerio”. La poesia, in questi versi, assurge a salvatrice da una condizione insostenibile ed è interessante notare che riesca in questo intento perseguendo un’operazione memorativa “al futuro”. Altri versi del tuo Minimo umano rintracciano nella memoria la principale differenza fra l’umano e il resto del mondo, tanto che – se si getta uno sguardo alla tematica del ricordo dei defunti molto presente nel libro – la memoria sembra essere veramente quel “minimo” di umanità richiesta al mondo per continuare a esistere. Potresti definire cosa è la memoria per te, nella tua poesia, in questo libro?

SdS – Penso che nella domanda ci sia già parte della risposta. La memoria (o meglio, il ricordo), non è un contenuto e non ha un raggio d’azione. È una chiave che apre porte: l’umanità, la fede, la bellezza, l’arte stessa, sono le porte da aprire con questa chiave. Senza di essa queste porte restano chiuse, e noi rimaniamo dall’altra parte, al gelo, senza possibilità di vedere la luce, senza il potere di uscire da noi stessi e dai nostri rovelli. Restiamo creature nude nel tritacarne della civiltà dei consumi. Non saprei esprimermi in modo più chiaro.