Intervista a Pietro Federico – pt.2

Pietro Federico è nato a Bologna nel 1980. Scrittore, story editor e traduttore professionista. I suoi libri di poesia: Non nulla (2003, Ibiskos, Empoli), Mare Aperto, (Aragno, Torino, 2015) vincitore del premio Subiaco 2015 e Premio Ceppo 2017, La maggioranza delle stelle – canto americano (Edizioni Ensemble, Roma, 2020). Alcune traduzioni poetiche: Le storie più mute di Katherine Larson (Edizioni Interlinea), La ballata del Carcere di Reading di Oscar Wilde (Giuliano Ladolfi Editore), Poesie di Martha Serpas (in Testo a fronte di Marco y Marcos).

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MB –  Come accennato sopra, la dimensione totemica ed emblematica è molto presente. C’è una tensione tra terra e cielo, tra pathos e immagine che si incarna appunto in delle figure stabili. Senza tirare dentro il discorso Warburg e gli indiani del rituale del serpente, mi pare che la dimensione dell’animale abbia un ruolo chiave in alcune poesie (“quando dalla strada vide l’orma / di un esemplare enorme l’orsa nera / che ora giace morta sul rimorchio”; “Dove il leone bianco dell’inverno sta baciando / il mio corpo infermo che la tiene / e il suo volto nero di agnello”; “Per questo sono andato nel deserto / mi sono esposto all’aquila e al nibbio / al serpente a sonagli agli avvoltoi”). Quasi per tendere ancora di più il legame fra cielo e terra, tra dimensione terrena e ultraterrena, ogni tanto appare un Angelo, figura nota alla poesia (penso a Rilke, su tutti) ma anche di palese ispirazione biblica. Sotto quale chiave sono da leggere queste figure “non umane”?

PF – L’esperienza che ho fatto dell’America è stata intensissima, in un certo senso vertiginosa e terribile. Si è formata in me la convinzione che la cultura americana sia una cultura pagana, pre-cristiana. E non molti di loro sono consapevoli di questa cosa. La maggior parte di loro sono ancora convinti di essere cristiani. Non che il cristianesimo non ci sia, ma si giustappone a qualcosa che viene inevitabilmente da prima, da molto prima. Non sto parlano di un prima in senso cronologico, ma in senso spirituale. Il loro rapporto con la realtà si fonda prima di tutto su altro.
Andando lì da cristiano “classicista”, pieno di memoria e di tradizione, ho scoperto che prima di tutto la loro spiritualità è quasi romana. In primis il primo nucleo culturale è la familia, intesa proprio alla romana. L’America non ha mai posseduto un tessuto sociale solido, o almeno non solido secondo l’accezione che noi daremmo a questo aggettivo. Per gli americani andare alla ricerca di fortuna o di terra o di lavoro nel West, quando si partiva dalla costa orientale, significava dover attraversare un continente. Famiglie (di venti, trenta persone) si spostavano attraversando spazi immensi. E questo in parte ancora succede, in maniera diversa da cento anni fa, certo, ma il principio è lo stesso. Non vorrei essere frainteso, quando la marcia verso il West si è fermato la cultura in America è decisamente diventata più stanziale; tuttavia a livello archetipico questa dimensione è rimasta sedimentata in loro. Il nucleo familiare è ciò che per loro surclassa qualsiasi altro nucleo, sia politico, culturale o sociale. Ogni famiglia ha i suoi Penati, i propri angeli familiari, i propri dannati. Gli antenati. L’unica cosa su cui veramente puoi contare, la radice calda su cui fondare la vita, è la radice dell’albero genealogico che affonda verticale nel tempo. I Penati, i Lari…, ma questo è solo il primo aspetto.
Poi c’è il rapporto con la natura, ovviamente, che è un’altra natura rispetto a quella europea. Per noi europei è assolutamente impossibile renderci conto di cosa sia quella natura: una dimensione imponderabile, ineluttabilmente incontrollabile. Stiamo parlando qui di una vastità non solo geografica, ma di una prepotenza (parlo di fenomeni atmosferici e metereologici che stravolgono completamente la vita delle persone) dell’entità della natura. Gli americani, e questo lo dico sempre, non sono i cittadini “borghesi” ad esempio di New York o delle grandi città californiane; una gran parte degli americani ha un rapporto con la natura o pagana o comunque vetero testamentaria. Dobbiamo renderci conto che stiamo parlando di un popolo a noi in gran parte sconosciuto. Gesù Cristo non c’è ancora, anche se formalmente fa parte dell’immaginario collettivo, c’è invece un Dio senza volto, a volte anche capriccioso, che si manifesta nella potenza della natura. Siamo nel libro dell’Esodo del rovo che arde senza consumarsi, del Mar Rosso che si apre. Noi europei siamo cristiani, ma il nostro Gesù è un Gesù che spesso è stato addomesticato, ridotto quasi a un innocuo santone. Quando Gesù invece irrompe nella vita religiosa di un americano, Egli lo fa con la stessa irresistibile forza di un tornado del Mid-West, perché raccoglie in sé tutta la potenza indomabile di Yahweh e tutta l’intensità umana del pioniere, del fuori legge, del profeta, del Santo che ha varcato le stesse immense distanze che lui conosce bene, per poterlo raggiungere.
Tornando alla natura in senso pagano. È presentissima la dimensione del genius loci, del dio che abita la natura. È forte in loro l’istinto di una presenza che abita la natura, e che allo stesso tempo la trascende. La natura americana è fatta di sterminate ampiezze selvagge. In confronto la natura che abbiamo qui in Italia è decisamente più addomesticata o, comunque, spesso siamo noi a viverla come tale. Il violinista della poesia Maine, è quasi Pan (o Orfeo); ma non è un mio sogno, ho visto questa cosa avvenire, e scrivendola questo mito è ri-uscito. Il totem viene da questo, da questo rapporto angelico (non in senso “nostro”, ma in senso selvaggio, in senso medio orientale; è l’Angelo di Giacobbe, che ti combatte e che ti può uccidere), dalla dimensione dell’oltre che si incarna nella natura indomabile. L’America è l’occasione per ogni europeo di rendersi conto di queste cose. Altro che lune di miele a Los Angeles! Gli Stati Uniti devi attraversarli in macchina, per permettere loro di rapirti coll’immensità del loro respiro continentale.
Detto questo, il rapporto con gli animali ha a che fare con questo medesimo rapporto con la terra e con la sua natura angelica. La terra è ciò che ti annuncia questa presenza immensa e pericolosa, che ti porta a confrontarti con essa. Sono segni, gli animali, di qualcosa di più grande (come si legge nella poesia Nebraska).

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MB – “Le scritture non chiedono scrittore / solo un testimone. / Il sole è un lume che il senso si alza sugli occhi / quando niente esiste ancora in moltitudine / e lui per poco ancora va a ritocchi / per capire come dirci l’alfabeto / della propria solitudine. / La A di una montagna e la V di un abete / squarciato da un fulmine. / Le scritture non chiedono scrittore / solo un testimone.” In questi versi parli di Scritture, di testimonianza, di scriba se vogliamo. Potresti parlare di questa sorta di “vocazione” impersonale della tua poesia?

PF – È una presa di posizione su cosa è l’amore e la vita per me, ed è una presa di posizione prettamente egoistica. Come posso trarre vantaggio dalla poesia nella maniera più estrema? Perché io voglio conoscermi, ma conoscermi veramente. E per conoscermi veramente devo banalmente poter entrare in zone di me che non conosco. Riprendendo Eliot e i suoi Quattro Quartetti:

Devo dirlo di nuovo? Per arrivare là,
Per arrivare dove voi siete, per andare via da dove non siete,
Dovete fare una strada nella quale non c’è estasi.
Per arrivare a ciò che non sapete
Dovete fare una strada che è quella dell’ignoranza.
Per possedere ciò che non possedete
Dovete fare la strada della privazione.
Per arrivare a quello che non siete
Dovete andare per la strada nella quale non siete
E quello che non sapete è la sola cosa che sapete
E ciò che avete è ciò che non avete
E dove siete è la dove non siete.

Ma come farò allora a conoscere qualcosa di me che ancora non so, se tutto ciò che ho è la mia immaginazione, i miei sentimenti, i miei pensieri. C’è solo una via: devo trovare il modo di uscire da me stesso. E dato che il mio obiettivo è l’uscita da me per conoscermi, mi affido all’Altro perché possa restituirmi una parte di me. Nel raccontare l’Altro, stai parlando anche di te, ma senza volerlo fare. Banalmente: dimenticati del tuo io e delle parole che lo raccontano, perché è comunque impossibile che in quello che scrivi non ci siano le tue mani, il tuo sangue.
Può aiutare il pensare alla poesia non come a una forma d’arte, ma di artigianato. La più difficile forma di artigianato, perché lavorare con la pietra o l’olio è in qualche modo ancora una forma di dialogo con qualcosa che puoi stringere, sfiorare, toccare. Mettiamoci sul foglio come se il foglio non esistesse, come se avessimo a che fare solo con la realtà in cui stiamo entrando, semplicemente, come se stessimo dando forma ad un vaso, piano piano, seguendo ciò che la scena ci dice, surfando con le dita sulla pietra o sull’argilla della realtà e della musica del nostro linguaggio. E non preoccupiamoci di lasciarvi un segno. In questo sta la sola vera possibilità che la pietra della realtà, che la visione, possa restituirci una parte di noi prima invisibile. Per esempio scrivere di quel serial killer nella poesia Washington, ha richiesto moltissimo studio psicologico e storico e, al di là di questo, non è certo stato una passeggiata di salute.
Ripeto, non voglio uscire da me stesso in nome di un amore buonista o comunque disinteressato; se il desiderio di conoscere sé stessi attraverso la poesia è veramente sincero, uscire da sé diventa il più efficace atto d’amore a se stessi ed è assolutamente necessario. L’uscire in contro all’Altro, dimenticandosi completamente di sé, diventa l’unica condizione per una vera scoperta di sé. È proprio Dante, che per amare Beatrice deve uscire dalla selva del suo sonno e dei suoi sogni e attraversare l’Inferno contemplandone centimetro per centimetro. Dante uscirà a riveder le stelle non passando da dove era venuto, ma letteralmente sbucando dal fondo di tutto il male di cui l’umanità è capace, di cui lui è capace. Bisogna essere disposti a uscire da sé stessi. E uscire da se stessi vuol dire innanzi tutto essere disposti a tenere gli occhi fissi su tutto il male di cui siamo capaci. Un male immenso. Solo così, schiacciati dal peso di quel male, diventando piccoli, polvere, fango, argilla, quasi senza saperlo, diventeremo in grado di vedere l’universo in tutta la sua vastità e saremo in grado di metterci in una vera posizione di ascolto, di dare alla parola la possibilità di generare in noi un nuovo vero mito e una nuova e antichissima realtà. Come diceva Wystan Hugh Auden: “la grandezza del poeta è proporzionale alla sua capacità di umiliazione”. O ancora, per chiudere con Eliot dai Quattro quartetti: “La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere / la saggezza dell’umiltà: l’umiltà è sconfinata. // Le case sono andate tutte sotto il mare. // I danzatori sono andati tutti sotto la collina.”
Ne va del futuro del linguaggio. Il che vuol dire che ne va di noi stessi e del futuro prossimo dell’umanità.