Intervista a Pietro Federico – pt.1

Pietro Federico è nato a Bologna nel 1980. Scrittore, story editor e traduttore professionista. I suoi libri di poesia: Non nulla (2003, Ibiskos, Empoli), Mare Aperto, (Aragno, Torino, 2015) vincitore del premio Subiaco 2015 e Premio Ceppo 2017, La maggioranza delle stelle – canto americano (Edizioni Ensemble, Roma, 2020). Alcune traduzioni poetiche: Le storie più mute di Katherine Larson (Edizioni Interlinea), La ballata del Carcere di Reading di Oscar Wilde (Giuliano Ladolfi Editore), Poesie di Martha Serpas (in Testo a fronte di Marco y Marcos).

 

***

 

Go, go go, said the bird: human kind

Cannot bear too much reality.

Via, via, via disse l’uccello: il genere umano

Non può sopportare troppa realtà.

 

T.S. Eliot, Quattro Quartetti – Burnt Norton

 

 

MB – Il tuo ultimo libro, La maggioranza delle stelle (Ensemble, 2020), si presenta come un interessante e modernissimo Grand Tour, ma “al contrario”. Sembra, cioè, di percorrere un viaggio volontariamente centrifugo, che si allontana dal centro caratteristico dei vari Stati per mirare proprio allo spazio non precostituito dalle visioni di noi “orientali” (“Caro Pietro / chissà se mai vi verrà a noia / queste propaganda idiota / di dire America e pensare California / e volgerete gli occhi a stati come il Nord Dakota” si legge nell’ultimo brano). Al centro, spesso, della narrazione in versi, c’è la natura, intesa come forza primigenia (il vulcano delle Hawaii, il deserto texano, i grandi fiumi, le pianure…) che si concretizza in un elemento totemico-emblematico (“Hidden Valley ha una quercia come emblema / il suo fogliame folto e secolare”) capace di attivare una narrazione di sé e dell’energia che lo calcifica sulla mappa. Proprio a questo riguardo, leggevo che due geografi dai nomi parlanti, Wood e Fields, avevano coniato per una cartina del North Carolina particolarmente ricca di dettagli totemici la nozione di “mappa mitologica”. Converresti, per una possibile definizione del tuo libro, con questa espressione o l’aggettivo mitologico-emblematico è avvertito con una certa paura di chiudere in una visione stereotipata la vita che racconti nelle tue poesie?

PF – La questione del paesaggio, lo confermo, è assolutamente fondamentale e non dà solo luogo agli animali e a queste presenze che non sono umane, ma anche proprio all’uomo. Io vedo emergere la figura umana quasi geneticamente come nel quinto giorno. L’uomo emerge dalla terra, dal fango di cui letteralmente è fatto. L’America nella mia esperienza e nella mia vita è stata anche questa presa di consapevolezza del fatto che tra uomo e terra c’è questa connessione. Una connessione che va ben oltre l’aspetto fisico e biochimico, un legame decisamente mistico. D’altronde nel nostro tempo questi campi della conoscenza stanno andando progressivamente a convergere ed è inutile rimanere con schemi e ideologie di due secoli fa. L’idea che questa opera guardi l’uomo come qualcosa che emerge dal paesaggio – anche se la parola paesaggio rischia di richiamare una versione pittorica della visione e sarebbe riduttivo intenderla in tal senso – è giusta.

C’è sicuramente un aspetto simbolico, ma questo è generato da un amore disperato, ossessivo per la realtà; l’ultima cosa che voglio è creare simboli out of my head.  Questo aspetto si lega a quello della mitologia. Anche il mito… adesso, nella nostra cultura europea, lo vediamo come un portato di simboli e analogie, e questo ci impedisce di riconoscerlo come invece lo spazio d’incontro tra un presente vivo e una memoria viva. Non solo non riusciamo a rapportarci con il nostro mito in maniera sana, ma non riusciamo più a generarlo questo mito. Questo è la mia più grande preoccupazione: il novantanove percento dei poeti dell’occidente non sono più in grado di generare mito, e quindi epica, di scrivere poesia epica.

La nostra poesia – e lo dico con un senso di dolore profondissimo – si è andata a impantanare dentro a un movimento convoluto della psiche dove può esistere solo una certa lirica, che a forza di girare su se stessa continua a parlare senza dire più niente. Si sente proprio la mancanza della grandezza – e per grandezza non intendo la grandezza etica, parlo di una grandezza quasi geografica, di visione, di orizzonti, di storie e di Storia, di un respiro così ampio che quasi ti fa paura prenderlo, perché l’aria che ti riempie i polmoni sarebbe tanta e così pura che non sai se li farebbe esplodere. Parlo di quell’excessus mentis dentro il quale i mistici medievali (un po’ come Dante nel Paradiso) e di tutti i tempi fanno vela; quell’excessus mentis che è al tempo stesso sia la spinta per progredire che il luogo in cui progredire, immersi sempre in una vastità oltre il limite del sopportabile (come gli abissi di luce del Paradiso o le incalcolabili miriadi dannate dell’Inferno). Nella poesia contemporanea non la sento più questa cosa. Ci sono delle bellissime cose, bellissimi slanci, ma sono tutti più o meno la proiezione dell’ego del poeta su un certo fatto. In altre parole la realtà è una scusa o comunque un mezzo per canalizzare ciò che io provo, ciò che io penso. Il confronto epocale per la salvaguardia del linguaggio e dell’umanità ai giorni nostri si riassume secondo me in un biforcazione netta che ci chiama a una decisione umana, ancora prima che linguistica. Sto parlando della biforcazione, della scelta tra 1) scena/immagine da una parte, e 2) visione dall’altra:

 

  • una cosa sei tu che vedi una scena o usi una parola, o provi un’emozione, ma che comunque usi la scrittura per veicolare te stesso
  • e una cosa è trovarsi in una realtà che comprende la tua persona e la trascende, come se tu fossi quadrimensionalmente immerso in ciò che stai scrivendo.

 

La visione è quasi come se la tua poesia derivasse da un sentirsi oggetto di uno sguardo; non sei tu che guardi la cosa e la investi della tua emozione. Un livello emozionale può esistere come non esistere, ma è comunque totalmente secondario. Quello che conta è che i tuoi occhi comincino a strisciare lungo la superficie delle cose, dimenticando se stessi. E da lì nascono le parole che non avresti detto. Da quelle cose, da quella realtà che i tuoi occhi assediano, su cui i tuoi occhi premono, mendicanti di nuovo, senza tregua.

Dal buio passi all’entrata di una grotta e alla sua luce abbagliante… scopri di essere in una miniera, poi continui a guardarti intorno, e dalle cose che piano piano prendono forma, mentre i tuoi occhi si abituano alla luce, emergono parole che mai avresti potuto dire, anche solo un secondo prima (vedi la prima poesia del libro: Colorado). Ed è così che il linguaggio si rinnova. Prima di tutto si rinnova in te. E se decidi di andare fino in fondo a questa storia, a questo percorso, finirai col pronunciare ogni tanto una parola antica, ma insostituibile per nominare quel presente con esattezza. A volte invece, per il desiderio di dire proprio la cosa che vedi, ne inventerai addirittura qualcuna o la ruberai da uno slogan pubblicitario, o da Dante, o dal portiere di casa tua, purché quella cosa venga nominata bene, purché a quella cosa sia fatta giustizia, sia dato il giusto battesimo.

Vorrei chiarire una cosa: quando dico che i poeti di oggi, o comunque la stragrande maggioranza di essi, usano la realtà asservendola a se stessi, metaforizzandola ad esempio, usandola per trarne metafore, per esprimere ciò che sentono,  non lo sto dicendo con una connotazione negativa. Non credo nemmeno che essi siano coscienti dell’asservimento che operano nei confronti del linguaggio. Sono sicuro che quasi sempre si tratti di un cortocircuito a monte. Penso che ormai la maggior parte dei poeti pensi che la poesia possa essere solo quella. Non puoi andare oltre la proiezione che tu stesso hai della realtà, se tu stesso hai creato questi paletti. È impossibile che possa succedere altro. “Niente è più assurdo di una risposta a una domanda che non si pone”.

Manca questa vastità. Non ci si pone neanche più il problema della sua esistenza. Ma se si decide di dare retta agli squarci di vastità che nella vita abbiamo, se si decide di guardarli come brecce che ci svelano questo immenso spazio, se decidiamo che il più alto valore della poesia è legato a quello spazio rivelato e non a ciò che quegli squarci ci fanno sentire, allora cambiano le regole del gioco. Smetteremo di guardare il dito, e la nostra poesia sarà fatta di un respiro ampio quanto la distanza tra i nostri occhi e la luna.

Resteremo consapevoli che di questa vastità al massimo potremo raccontare dei pezzi, dei frammenti, ma questi frammenti acquisiranno un tratto di unità, il peso specifico di quella vastità. E questo peso specifico scaturirà  dalla nostra coscienza che quelli sono frammenti di un tutto e sono guardati tanto quanto noi. Non siamo noi a guardarli; noi ci troviamo guardati insieme a loro. È un’intensa passività (Ungaretti la chiamerebbe quiete accesa), un ricevere lo sguardo che accomuna il poeta a quello che il poeta sta raccontando. Ci si trova dentro lo stesso mezzo, la stessa dimensione. Ecco perché l’epica diventa poi la poesia del popolo, la poesia dove tutti si sentono coinvolti, a cui tutti possono partecipare (che è quello che fecero Dante o Omero).

Questa è una questione di vita o di morte per la poesia adesso, ne va del linguaggio stesso. I poeti sono certo i responsabili del linguaggio, i sacerdoti del linguaggio, coloro che più di tutti sono chiamati a mettersi al suo servizio. Ma non assolveremo al nostro dovere se continueremo a vedere la poesia come frutto di un bisogno che noi abbiamo di esprimere i nostri sentimenti (magari raccontando anche le cose in maniera molto bella) o un nostro giudizio, perché questo modo di pensare la poesia non rigenera il linguaggio, e porta invece a una retorica che finisce sempre, inesorabilmente, con il ripiegarsi e implodere su se stessa, porta a un sistema di linguaggio che continua a ripetersi, a incancrenirsi, a voci che diventano eco di se stesse.

Il vero mito nasce quando i simboli si rompono e lasciano trasparire la realtà viva. E per farlo dobbiamo dimenticarci i simboli e disperatamente perseguire la realtà. Uso l’avverbio disperatamente portando nella mente e nel cuore i Quattro Quartetti di Eliot (Sezione East Coker):

 

Ho detto alla mia anima: taci, e attendi senza speranza

Perché la speranza sarebbe speranza mal collocata: attendi senza amore.

Perché l’amore sarebbe amore mal collocato; rimane la fede

Ma la fede e l’amore e la speranza stanno tutti nell’attesa.

Attendi senza pensiero, perché non sei pronta al pensiero:

Così il buio sarà luce, e la quiete danza.

 

Quello a cui dobbiamo puntare non è usare dei simboli a priori, dobbiamo abbandonare la proiezione e re-imparare la visione e sentire la maggioranza delle stelle, ovvero l’invisibile che da sempre esiste, ma che noi non vediamo perché i nostri occhi non arrivano mai abbastanza in profondità per coglierlo. In questo libro c’è un approccio “medievale”, cioè c’è la coscienza che tutto quello che ci circonda è segno di qualcosa che ci sfugge, che la realtà è spazio a un di più: sia a livello quantitativo, orizzontale, che qualitativo, verticale. C’è una sorta di vibrazione di fondo, di marchio esistenziale che tiene insieme tutto e resta in filigrana nelle cose e negli uomini.

 

MB – Il sottotitolo del libro è Canto Americano. La tua poesia, come nota Giancarlo Pontiggia nella sua limpida prefazione, è quasi un unicum nel panorama italiano, sia per tema che per metro; a squarci lirici fulminanti si accostano racconti lunghi e piani, prosopopee bibliche e dialoghi mancati. È però innegabile che, a tenere unita la trama testuale, sia presente un pedale ritmico o fonico abbastanza costante. Mi riferisco alla numerosissima presenza di assonanze (ad apertura di testo abbiamo, ad esempio: “Quando emergo dalle cave a Cripple Creek / le mie braccia sono così stanche / pendono dalle spalle inerti. / Qualcuno mi deve aiutare altrimenti / neanche riesco a svuotare la borsa nel vagone / con gli ultimi frammenti. / Esco sempre al tramonto e dapprima / questa soglia ciclopica è accecante.”) ma anche di rime (“La promessa di pace del mondo è legittima / siamo noi cui per pigrizia piace / fare la vittima”, qui addirittura proparossitona). Questo aspetto risulta essere controllatissimo e mi ricorda (forse è il nome “canto” ad agire in sottofondo) la modalità leopardiana di imperniare il pensiero sulla materialità fonica del verso. La dimensione di meditazione mi sembra molto presente nel tuo testo, ma credo che Leopardi non sia il modello di questa. C’è qualche figura ispiratrice? I vari riferimenti biblici sparsi nel testo sono catalizzatori di rime e assonanze?

PF – C’è sicuramente un atteggiamento che si rifà molto alla poesia americana tradizionale (per me è quasi un transfert, per cui mi viene subito da nominarti Robert Frost, uno dei miei “maestri” americani – anche se io dall’America sono solo stato adottato; prima di tutto c’è Ungaretti, che mi ha insegnato a usare il verso per differenza, cioè per silenzi, non per parole). Io sono molto più attento al bianco che al nero. Per questo per ora (magari poi tornerò alla metrica tradizionale), sono molto più attento all’aspetto sonoro, che però non è solo in punta di verso come tu hai notato. Di rime interne ce ne sono moltissime, proprio perché per me la tessitura sonora è fondamentale. Il principio cardine, l’obiettivo che mi spinge a cercare questa fittezza sonora di corrispondenze è quello di uscire da me stesso, di disarcionare il pregiudizio della mia ragione, un po’ come faceva Eliot con l’immagine e Ungaretti con il suono. Con pregiudizio della mia ragione intendo il pregiudizio con cui chiunque, quando scrive e le parole cominciano ad andare verso un significato, si forma. C’è questa tentazione continua nella testa di ogni scrittore, è una sorta di inclinazione umana che porta a controllare la visione e a ridurla ad immagine; è una tensione fissa. La chiamerei quasi “orgoglio”, il peccato originale della scrittura; non è che possiamo farne a meno, è in noi. Detto ciò, la rima e la visione creano lo spazio sonoro e visivo che per lo meno mi permette di tentare di liberarmi da questa tentazione, da questa inclinazione.

Lessi anni fa un saggio di Shalamov, poeta russo, che mi lasciò un’impronta profondissima. Ricordo questa frase di questo saggio (di cui non ricordo il nome): “La rima è un magnete puntato nel buio del mistero”. Che cosa vuol dire? Quando tu scrivi un verso dando però per scontato che in esso ci sia l’innesco di una rima, automaticamente stai già cedendo il controllo alla realtà che stai raccontando e alla musica del linguaggio che stai usando: due dimensioni immensamente più grandi di te stesso. In altre parole non sei più tu il direttore dell’orchestra. Sei solo un musicista. Un’immagine ancora migliore è quella del surfista che non può controllare le correnti oceaniche che cavalca, ma può navigarle assecondandole in un certo modo. Questo ti spinge ad inoltrarti più profondamente nella realtà che stai contemplando, liberandola dalla tua logica e rispettandone la vita. Ciò può essere utile anche e soprattutto nel verso libero, che spesso e volentieri viene usato proprio per non fare i conti con la vastità del linguaggio e della visione, e diventa invece un modo per asservire il reale alle nostre sempre troppo piccole idee o emozioni.

Spesso e volentieri oggi non ci facciamo guidare dalla forza del nostro linguaggio, ci adagiamo su quello che di esso sappiamo già. Su una “voce” trovata dieci, vent’anni prima. La scrittura è una forma di conoscenza, è una sonda che ti porta dentro al mondo, in posti che sono e che devono essere sconosciuti, non in un circolo vizioso di infinite, dissimulate ripetizioni. Attaccarsi spietatamente alla realtà è l’unico modo che abbiamo per salvarci da noi stessi. Apriamo disperatamente i nostri occhi sul mondo e i nostri orecchi alla rima e al ritmo, perché, per riprendere Eliot, la nostra anima non è pronta al pensiero.

Vorrei concludere con questo: la rima senza la visione diventa simbolismo (come il simbolismo francese di fine ottocento), dove la musica è incantevole, ma la visione non esiste. Simbolismo e naturalismo sono paradossalmente facce di una stessa medaglia, entrambe correnti artistiche scaturite dall’idealismo, corrente filosofica che ha informato le nostre coscienze in maniera pesantissima in questi ultimi due secoli, e secondo la quale la realtà esiste solo in proporzione a quanto noi vediamo o capiamo (e, per inevitabile traslato, sentiamo) di essa.

Quando c’è musica ma non c’è visione la poesia soffoca in pure acrobazie sonore. Possiamo citare qui anche il futurismo e una buona parte delle avanguardie nella seconda metà del novecento. Al contrario, se c’è la visione ma non c’è la musica, la poesia si disfa in un linguaggio piatto e prosastico, il suo potenziale evocativo muore prima di vedere, e di conseguenza mostrare, qualsiasi luce.

Sono certo di questo: se ci azzarderemo a fare a meno dell’epica per altri dieci o vent’anni il nostro linguaggio andrà in rovina, come sta già succedendo, e saremo noi i principali responsabili di questa catastrofe, non Facebook o Instagram. È colpa dei poeti se il linguaggio muore, non della televisione, né tanto meno della scuola.