Intervista a Giancarlo Pontiggia (a cura di Michele Bordoni) – parte 1

Giancarlo Pontiggia è nato a Seregno, in provincia di Milano, nel 1952. Ha studiato Lettere all’Università degli Studi di Milano, laureandosi sulla poesia di Attilio Bertolucci. Ha pubblicato le raccolte: Con parole remote (Guanda, 1998, Premio Montale) Bosco del tempo (Guanda, 2005), poi confluite in Origini (Interlinea, 2015), Il moto delle cose (Mondadori, 2017). Per il teatro, ha scritto: Stazioni (2010), Ades. Tetralogia del sottosuolo (2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi: Contro il Romanticismo (2002), Lo stadio di Nemea (2013) e Undici dialoghi sulla poesia (2014). Dal francese ha tradotto, tra l’altro, La nouvelle Justine di Sade, le Bagatelle per un massacro di Céline, le tre versioni del Fauno di Mallarmé, La bambina dell’oceano di Supervielle, Charmes e Il mio Faust di Paul Valéry

 

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MB – Avendo avuto la fortuna di conoscerla prima sui libri di letteratura latina e poi come poeta, è stato difficile, nella lettura delle poesie, separare il Pontiggia classicista dal Pontiggia versificatore. Vista la ormai classica lettura di lei come poeta in cui arcaico e contemporaneo si danno reciprocamente nella pagina volevo chiederle chi, fra i poeti della classicità e della letteratura italiana ha più influenzato il suo stile poetico.

GP – Negli anni del Ginnasio ho letto molto, come forse mai più nella mia vita. Vivevo in una provincia appartata, lontano da ogni clamore, ogni moda. Sarà stato per quello che non ho mai sofferto di dover essere à la page, come si diceva allora, di dover essere insomma absolument moderne, come – con un po’ di spavalderia, ma nutrita di genio – si era espresso un secolo prima il giovanissimo Rimbaud. Che già leggevo a quattordici anni, naturalmente, come Baudelaire, come Villon, come tutti i maudit che sono nel cuore, fatalmente, di ogni ragazzo. Ma senza che per questo sprezzassi di leggere i grandi classici greci e latini. Ho sempre sentito, fin d’allora, che la distanza del tempo dà a ciò che leggiamo una vastità di orizzonti, di pensieri, di energia immaginativa che i contemporanei non riescono a darci. Il tempo scava ogni parola, sfrondandola di tutte quelle idiosincrasie – private o pubbliche – che tanto ci prostrano anche nei migliori dei contemporanei. La distanza temporale ci fa sentire il respiro della storia, dell’uomo che si muove nella vastità degli spazi cosmici con la fragile cannuccia dei suoi pensieri e delle sue lingue: il Giardino epicureo, in Lucrezio, ha la fissità favolosa di un’utopia realizzata; le selve del vetus Latium, meravigliosamente evocate nel settimo e nell’ottavo libro dell’Eneide, sono fatte della stessa materia dei sogni. Insomma, fin dalle mie prime letture, sentivo di aver bisogno del respiro di un verso antico come dei deliri organizzati di un poeta moderno: due stati opposti, e insieme complementari, del nostro cuore. Come tutti, feci subito le mie scelte: i tragici greci, i frammenti di Alcmane e di Mimnermo, Lucrezio, il Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche, Properzio, per restare alla poesia; ma anche libri felici e immensi come le Metamorfosi di Apuleio, o Gli amori di Dafne e Cloe di Longo Sofista, letti spesso su edizioncine casuali. E poi, tra gli italiani, i poeti più intimi e intensi, quelli che non mentono mai: Cavalcanti, Petrarca, il Foscolo dei Sepolcri, Leopardi, Montale.

 

MB – In una nota della poesia Hesperus adest ne Il bosco del tempo lei afferma: “Solo chi ha cuore puro può comprendere la bellezza sinuosa dell’erudizione, soprattutto quando essa appare fondata sui moti intimi del cuore, non sull’opaca e divagante curiosità intellettuale. Penso ad Aulio Gellio, a Macrobio, le cui opere sembrano nascere da un profondo desiderio di ordine estetico e morale, da una forma stellare e appartata di dedizione” (desiderio di ordine morale, prima che estetico, che Roberta Bertozzi riconosce fin dalle prime poesie de Con parole remote). Data l’importanza percepibile dai suoi versi di uno studio serio, di una ricerca di uno stile capace di andare oltre se stesso per approdare a una significazione etica e gnoseologica, le vorrei chiedere se, nel tempo presente, si avverta una deriva dell’erudizione come sopra definita da lei. È ancora praticabile una ricerca erudita che scavi al cuore del presente? Quanto manca, eventualmente, alla poesia e alla civiltà il suo lato erudito? Il “cuore puro” di cui ha parlato è scomparso del tutto?

 GP – Ritornando a quell’epoca in cui le cose accadono come se non potessero accadere altrimenti – quell’epoca, insomma, in cui senti che stai imboccando una strada, e che non puoi fare a meno di percorrerla – vedo un ragazzo che contemporaneamente legge le Lettere familiari di Plinio e la Saison di Rimbaud, che fantastica sui venti libri delle Notti attiche di Aulo Gellio, e intanto medita sulle pagine deliranti, ma così profonde, del Grande Inquisitore di Dostoevskij. Che cosa teneva insieme quelle letture, e soprattutto quei pensieri, che erano poi vere e proprie visioni del mondo, o meglio liquide visioni di un mondo ancora in divenire? Guardando da mezzo secolo di distanza, mi pare tutto di un’evidenza disarmante: in me continuava ad agire l’idea di una civiltà, un sentimento di appartenenza a una storia culturale che proprio allora si stava, forse definitivamente, disgregando. Qualcosa che, lo sentii oscuramente negli anni successivi, aggirandomi tra i portici della Statale, bisognava tener celato: una forma della purezza che dovevo salvaguardare dall’invadenza ironica del mondo. Erano gli anni in cui anche leggere Lucano (un altro poeta immenso e troppo trascurato) o i frammenti di Empedocle sarebbe stato guardato con sospetto: figuriamoci Aulo Gellio, Macrobio o Censorino. Tutto era nuovo e inconfutabile, in quel momento, la verità divisa con l’accetta, la storia interpretata con le rovinose categorie della filosofia hegeliana, mentre un mondo nuovo – di cui pure non sapevamo nulla, ma di cui intuivamo la brutalità – era ormai imminente. Se oggi le cose sono cambiate, è solo perché quello strappo si è ormai consumato per sempre, e nessuno si pone più la questione del perché si legge, di cos’è una cultura, una lingua, di quale intima relazione leghi poesia e studio. Sono ben consapevole, naturalmente, che esiste una forma polverosa e puramente classificatoria – neutra, passiva, sorda a ogni eco dell’anima – di erudizione: una forma degli studi che espelle ciò che pure l’etimologia stessa del termine, fin dall’origine, esprimeva: studium (da studeo) indica infatti “desiderio, amore di qualcosa”, un ardore, un gusto, una passione insomma, che è la stessa che infiamma ogni verso. Macrobio scriveva per il figlio, nel momento di una rovina che è sottesa a ogni pagina, e che pure gli interlocutori di quel commovente dialogo sanno convertire in qualcosa di più alto degli argomenti stessi che affrontano. E molti dei miei versi, come quelli di Hesperus adest, sono nati proprio da questa forma originaria di passione: al centro di quella poesia, che scrissi quasi vent’anni fa (e che confluì poi in Bosco del tempo) è un bimbo che scopre all’improvviso la lingua latina, e ne rimane incantato. Non certo perché – come gli dicono i suoi professori – è una lingua di formidabile compagine logica (semmai, mi verrebbe oggi da dire, una lingua ricca di ombra, di qualcosa di celato e di ellittico: e basterebbe leggere Virgilio o Tibullo per capirlo), ma perché dentro quella lingua c’è il disegno di una civiltà.

 

La foto dell’autore è di proprietà di Dino Ignani.