Gisella Blanco su “Poesie (2020-1997)” di Vittorino Curci

 

Vittorino Curci

Poesie (2020-1997)

prefazione di Milo De Angelis

Edizioni La vita felice, pp. 164, 16 euro.

Di Gisella Blanco

.

Parto proprio dal dettaglio del titolo, “Poesie (2020-1997)”, per indovinare l’operazione intellettuale e, prima ancora, psicologica di Vittorino Curci: lo sfalsamento delle cronologie nel loro ordine di percezione solita e solitaria, la giustapposizione emotiva e linguistica delle ere personali e collettive attraverso la narrazione multidirezionale della Storia nelle infinite minime dilatanti storie di tutti. Il dato biografico appare volutamente sfuggente, evasivo, criptico così da rappresentare materia flessibile che si appoggia sulle parti del verso più visionarie affinché affiori la possibilità della loro coincidenza (“un bambino dietro una porta a vetri/guarda la strada coperta di neve./lì dove torniamo/il senso raggruma nel bianco”). Eppure è l’elemento realistico che infittisce la trama narrativa e quella lirica (“Sul crinale avverso un piccolo bar/di provincia con l’insegna al neon/e il cartello SI VENDE/Culture millenarie muoiono/in uno spavento immane”), proprio come avviene, con le dovute differenze, nella poesia filosofica di Hulme: la costruzione semantica si compone di correlativi oggettivi che si soggettivizzano nell’alternarsi di similitudini e contrapposizioni logiche e ontologiche per giungere alla trasfigurazione etica di ogni elemento della realtà (“Uomini accartocciati sui rami./La visione abbagliante dello schermo./L’orrore assoluto/passa il tempo”). Il cinismo, visuale acuta e necessaria, frutto maturo dell’albero radicale che non ha ignorato la sostanza universalistica e fertilizzante del tempo, pro-rompe tra i versi con la ferocia di un testamento precoce (“bisognava solo agire con lo sguardo. Per il resto, a quei tempi gli argini non crollavano”.) ma non ci si illuda che esso abbandoni il suo finalismo all’autocommiserazione: ogni frazione perduta del sé può recuperare la sua individuazione attraverso la compenetrazione osmotica delle età che ci appartengono tutte insieme (“collane di bambini intrecciano/trame di vendetta./il mesto giro delle stagioni affianca/la crudeltà dei sigilli./i nomi potrebbero tornarmi”). Ed è esattamente dai nomi che si parte per smarrire, nell’impronta di suono che rende la statura della carne, la temerarietà del potenziale umano (“La perfezione/all’altro capo del tempo/non ha memoria del nome”). Il linguaggio insedia l’esistenza, ne sincretizza apologie e disfatte (“La lingua che ho rubato è per voi/per le vostre bocche asciutte, contadini”), recupera la decodifica della vulnerabilità (“d’accordo sui rami, sulle i sbagliate, su tutto quello che arriva come un mal di testo nelle sere fortunate”). Torno al dettaglio, notando come il topos dell’infanzia che precorre e percorre tutta l’opera (che, si ricorda, è una antologia di estratti di varie pubblicazioni dell’autore che copre un lasso di tempo molto ampio) rappresenti una consapevole esposizione all’indietro (“forse, per una scucitura del tempo e una prolungata infanzia che cede sovranità al mondo”) che permette all’uomo di essere l’occasione di se stesso: “La gioia si capisce dagli occhi, dalla decisione con cui impugnano”. Nella divagazione onnivora di registri linguistici differenti che transitano dalla poesia in versi alla prosa poetica, mi sembra che una evidenza, benché impercettibile, non possa sfuggire: le composizioni più recenti hanno abbandonato le maiuscole e molta della punteggiatura degli scritti più risalenti, forse perché se da giovani la libertà è un istinto, nell’età matura, se lo vogliamo, può diventare un talento che ci allena all’etica del plurale.

*

albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie

sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno

la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie

*

un bambino dietro una porta a vetri
guarda la strada coperta di neve.
lì dove torniamo
il senso raggruma nel bianco

volevamo che fosse così
il mondo, un luogo immaginato e vivo
come l’arte che pulsava alle tempie.
ma a furia di togliere ci è rimasta
la fortuna… e promesse come brividi…
scene mute che ci consumano…
cani che abbaiano in lontananza
arruolati nel sogno

*

Vittorino Curci è nato a Noci nel 1952, dove vive. Musicista e poeta. Cura su la Repubblica di Bari la rubrica La Bottega della Poesia. Ha pubblicato numerose opere di poesia La stanchezza della specie, LietoColle, 2005, Un cielo senza repliche, LietoColle, 2008, Il frutteto, LietoColle,  2009, Il pane degli addii, La Vita Felice, 2012, Verso i sette anni anch’io volevo un cane, La Vita Felice, 2015, Liturgie del silenzio, La Vita Felice, 2017. Tra le sue altre pubblicazioni, un libro di racconti, Era notte a Sud, Besa, 2007, e due libri di poetica, La ferita e l’obbedienza, Icaro, 2007 – Spagine. 2017, e Note sull’arte poetica, Spagine,  2018. Nel 2021 è uscita l’opera antologica Poesie (2020-2017), La Vita Felice, con prefazione di Milo De Angelis.