CARLOTTA LO GALBO

Gianluca D’Andrea – Transito all’ombra

dandrea transito dellombra

Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra, Milano, Marcos y Marcos, 2016, collana Le Ali
Recensione di Antonio Devicienti

 

Il libro di Gianluca D’Andrea Transito all’ombra (Marcos y Marcos, Milano, 2016) possiede una compattezza stilistica e tematica che rispecchia la scelta nel contempo etica ed estetica effettuata dall’autore; non ci si aspetti dunque un’opera indulgente con le attese di lettori un po’ sprovveduti, ma neanche attestata su livelli di rarefazione snobistica della parola poetica – c’è un Maestro che accompagna i passi dell’autore, che lo ispira e sostiene in un dialogo continuo, discreto ed efficace, grazie al quale una tradizione nobilissima si lega a una modernità consapevole e problematica: l’Alighieri. E Transito all’ombra è altresì referto d’un attraversamento, d’un itinerario, d’un ininterrotto andare, proprio sulla falsariga dell’andare dantesco e attraverso territori che sono di volta in volta memoriali, psicologici, culturali, storici, politici. Ecco: se è forse vero che ancora adesso la produzione poetica italiana può essere anche interpretata a seconda ch’essa si approssimi più o meno a una linea petrarchesca o a una linea dantesca, Gianluca D’Andrea compie con il suo libro più recente un coraggioso tentativo di riappropriarsi della dirittura e del rigore etici danteschi per attraversare il mondo e l’Italia contemporanei anche tramite uno stile severo, privo d’infingimenti lirici, petroso nel senso che lo stile è mezzo d’indagine impietosa e non indulge mai a languori, intimismi, vezzi letterari. Infatti Gianluca si misura con la difficilissima e insidiosa questione del soggettivismo e dell’io in poesia, mette in gioco tutto di sé stesso (ricordi, esperienze, luoghi cui è legato, persone care), ma sa sottrarsi alle cadute (o ai capitomboli) nel soggettivismo e nell’intimismo proprio in virtù d’uno stile sorvegliatissimo, capace di diventare acuminato scandaglio, intelligente lente d’osservazione, giusta distanza tra io scrivente e realtà osservata.

Poeta e critico coltissimo e cosapevole, Gianluca D’Andrea possiede strumenti intellettuali e psicologici di perfetta caratura per effettuare l’itinerario che Transito all’ombra è; un esempio concreto che, però, non vuole stabilire un’eventuale filiazione o derivazione o subordinazione del lavoro del poeta siciliano da e a modelli preesistenti, ma dire, propriamente, di un alveo fecondo e stimolante entro cui Transito all’ombra si colloca: leggendo alcune pagine del libro ci si sente accompagnati non solo da Dante, ma da Fabio Pusterla (Aprile 2006. Cartoline d’Italia), da Vittorio Sereni  (L’Italia una sterminata domenica), da Franco Buffoni (penso, in particolare, a certe soluzioni e a certi temi contenuti in Roma), senza dimenticare le concomitanze dantesche con Luzi o con Zanzotto.

Accade così che il bellissimo titolo c’introduca a un libro-referto molto articolato e complesso: si comincia con un’infanzia, un’adolescenza e una giovinezza trascolorante fino alla maturità vissute nella Sicilia peloritana a partire dagli anni Settanta sino al mutamento del millennio e che sono tema portante d’un poemetto scandito in dodici parti dal titolo La storia, i ricordi – titolo perfetto (suggerito, si legge in nota, da Diego Conticello, sodale e complice, mi vien fatto di dire, di Gianluca) e che, appunto, dà avvio a una composizione che intreccia in maniera convincente i ricordi personali con la più vasta storia degli anni in cui il poeta è stato bambino e adolescente e oltre (“Alla fine di un’epoca il ricordo / sembra quasi rinnovare gli odori. / (…) / Sentivo dire di Franco, in Sicilia / il Tirreno era il mare dell’infanzia, / non sapevo di Ustica”, pag. 17 – “Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo / il passaggio del millennio e il livello / si ridusse in esplosioni nere, / i grattacieli” pag. 24 – “Aprivano e chiudevano le frontiere, / tutti in fuga sul brusio con altri fascismi” pag. 30); Transito all’ombra prosegue poi articolandosi in sezioni che esprimono tutte la scelta del poeta d’interrogarsi su sé e sul suo ruolo in quanto io poetante e, aspetto fondamentale, in quanto persona immersa in un contesto storico preciso e di esso consapevole – deriva da qui il tema e l’andamento del viaggio che innerva molte pagine, un viaggio non turistico né di svago, ma puntigliosamente conoscitivo attraverso l’Italia contemporanea,  traverso episodi di vita quotidiana che ben dicono la reazione e l’atteggiamento di un pensiero in continua tensione dialettica con realtà talvolta avvilenti o nemiche o alienanti (la scuola, per esempio – “In una scuola di un quartiere suburbano , / dove basso è lo scarto che separa / i riflessi e il vero che la realtà concede, / mi sorprendono mille vicende, / eventi fondanti, si diceva una volta, / emergenze che si fissano nella memoria”, pag. 64), per cui la struttura del libro sembra essere quella di una Comedìa rovesciata (il “paradiso” dell’infanzia – anche se Gianluca non la presenta né come idillio, né come eden perduto, ma come un abbandono progressivo e naturale dell’innocenza per entrare dentro la maturità; il “purgatorio” di una Penisola percorsa da nord a sud anche per i periodici ritorni “a casa”, cioè in Sicilia per le vacanze; l’ “inferno” delle situazioni stranianti o alienanti cui accennavo poco fa o della discesa negli abissi della propria interiorità).

Ma se, dunque, il dato esperienziale personale è punto di partenza per molti testi presenti nel lavoro, l’autore pone estrema cura nell’evitare qualunque forma di soggettivismo e di ombelicale effusione di pensieri e/o sentimenti: egli esercita e tiene vigile una razionalità che, esprimendosi tramite l’andamento del verso, sempre modellato sull’endecasillabo e quindi tendente al discorso ampio e articolato (non prosastico, si badi), fa piazza pulita di una poesia avviluppata su sé stessa, recupera un’idea di letteratura che (Sciascia docet) assume un atteggiamento sempre critico e agonico nei confronti d’una realtà guardata con ferma ostinazione e senza indulgenza.

Non so se Sofia, la piccola e talvolta teneramente monella figlia del poeta, sia una sorta di Beatrice per Gianluca, ma certamente proprio la bambina e anche la moglie dell’autore costituiscono due presenze femminili che l’accompagnano in questa sua andanza traverso l’Italia e anche oltre confine, disegnandosi all’interno di scenari urbani e animandoli o contrapponendovisi, stabilendo così un legame affettivo tra il poeta che osserva e il luogo osservato –  il breve poema in prosa che racconta della mancata visita alla Cappella degli Scrovegni, di conseguenza del mancato omaggio che pure il poeta siciliano ardentemente desiderava rendere al grande pittore fiorentino, ai miei occhi assume la valenza di un ulteriore richiamo anche a Dante, e intendo dire che il testo di Gianluca mi sembra essere un umile e perciò stesso tanto più nobile e originale modo di riconoscere l’inattingibilità per noi epigoni della grandezza dei due Maestri, grandezza cui, però, continuiamo a ispirarci e che cerchiamo, seppur in minima parte date le nostre forze, di travasare nei nostri lavori – ché la scrittura stessa è un ininterrotto transitare e l’ombra è la presenza costante della morte dentro l’esistenza individuale e della violenza dentro la storia collettiva, il margine di buio irrisolto che s’annida nelle nostre vite, ma anche quella gettata su di noi appunto dai grandi, nel cui “cono” ci nutriamo e cresciamo.

Non a caso la scuola (vi ho già accennato), i suoi ragazzi, le realtà personali con cui l’insegnante è chiamato a confrontarsi costituiscono un altro argine, bello e commovente, fondante e di valore del libro (e mi si perdoni, se possibile, il giudizio, lo so, estetizzante, ma credo che la bellezza, in questo lavoro, non sia un risultato da contemplare e di cui compiacersi, bensì un accadere e un processo in fieri, derivato proprio dalla scelta etica dell’autore, dal suo dialogare con le persone, con gli allievi, con la realtà); e in questo frangente mi piace riflettere su come Gianluca D’Andrea coniughi, a mio parere, le risultanze della cosiddetta “linea lombarda” con quella “borbonica”, anche vivendo nella propria biografia l’allontanamento dall’amatissima Sicilia e il convinto impegno didattico in una Lombardia che continua a essere meta d’ininterrotta immigrazione intellettuale dal Sud d’Italia: lo slancio verso il sogno e il fantastico si armonizza con il senso della realtà e della storia, l’aspetto diurno con quello notturno (proprio sette notturni chiudono il libro). C’è una coscienza civile e politica ben vigile dalla prima all’ultima pagina, un’indomabile consapevolezza di marca cattafiana e non si dimentichi che l’intero libro si snoda nel segno dell’esergo di Mandel’štam “Non è di me che voglio parlare: voglio piuttosto seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”.

         
          II

          Eppure c’era quell’altro ricordo,
          quel desiderio che ancora m’immagino
          di toccare, la pace familiare,
          la sensazione limpida di vivere

          la pienezza e sapere riconoscere,
          dopo l’angoscia, il sentire del vuoto.
          La vita è anche il richiamo, cortili
          di voci, le partite tra bambini,

          le altre voci rientrando nella casa,
          avvolto nel calore, le gommine
          nella stanza, luce bassa in cucina,

          suoni e voci dagli schermi, gli accenti
          che cambiano nel tempo e sono scia.
          Per vederli, prima e dopo, li sogno

(pag. 15, dalla sezione La storia, i ricordi)

          Lettera a mia figlia

          Cara piccola Sofia,
          non c’è mondo che si apre
          oltre la tua possibilità di vedere,
          per questo osserva tanto,
          comprendi i tuoi confini,
          ciò che senti ricordalo perché ti aiuti
          quando continuerai a scoprire sola
          la tua voglia di scoprire.
          Non ascoltare chi dirà che nulla
          è questa fine, perché sarà la fine.
          I tuoi giochi e la ricerca
          di un consenso sono l’umanità
          che è sola nell’individuo, corale
          nella necessità.
          Tutti siamo piccoli, Sofia,
          e abbiamo poco o niente da dire,
          eppure questo fiato, così buffo,
          è il dovere che ci unisce e dissolve

(pag. 63, dalla sezione Era nel racconto).

          IV

          Donne mie amate, di cosa si ama
          la figura nel ricordo?
          Salta nella coscienza
          e ferisce un nucleo sprofondato,
          respira a ogni increspatura
          la superficie impalpabile
          tremante instabile. Nude
          posso osservare ma non so
          se nudo potrò osservare,
          lo sguardo nasconde o perde aderenza.
          La distanza è un presentimento

 

Antonio Devicienti

 

Antonio Devicienti, di origine salentina, sposato con Elma e papà di Giulia, fa parte della redazione della rivista online Perìgeion e cura il blog personale Via Lepsius; collabora anche con le riviste Zibaldoni e Samgha.