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Davide Cuorvo, La misura del silenzio, Manni 2017, lettura di Eleonora Rimolo

cuorvoDavide Cuorvo, La misura del silenzio, Manni 2017

“Definire il silenzio”
lettura di Eleonora Rimolo

La possibilità che il silenzio si possa misurare con il peso delle parole, e del carico simbolico che esse portano con sé, viene valutata e scandagliata all’interno del libro La misura del silenzio di Davide Cuorvo (Manni, 2017 – prefazione di Wanda Marasco, postfazione di Armando Saveriano). La raccolta è un viaggio all’interno della “foce della notte” che con il suo buio assoluto ci spinge ad usare il tatto, l’udito, per poter vedere e per poter chiedere ad un dio sconosciuto “il conto alla vita”. I versi si muovono con un ritmo che alterna la contrazione alla distensione: è l’andamento dell’esistenza, circolare e spesso vano, che si conclude con “due lacrime in fondo”. Se il silenzio del senso è inevitabile, il poeta ha il compito di ascoltare quello che il silenzio ha da dire: una “foglia disfatta dal vento”, “un’alba / fra le scaglie di rugiada fresca”, o ancora “l’impronta nera di un sasso” sono richiami di una natura che dall’uomo è lontana ma a cui nello stesso tempo rimane vicina, imperscrutabile e pregna di segnali. In questa dimensione onorico-simbolica Davide Cuorvo cerca di riportare alla luce della coscienza “la spalla ancorata alla pietra”, un appiglio che abbia radici nella terra che calpestiamo, per evitare di perderci nel labirinto dell’esistenza. Una realtà-verità assoluta è quella dell’amore (“ad Amore appartengo), fragile quanto impetuosa forza che trascina, che distrae dal silenzio inquietante e continuo dell’assenza di risposte: amore passionale, filiale, amore ingenuo di “un’anima abbandonata / e di un bambino che la raccoglie”. Dopotutto, in amore, la reciproca comprensione dei silenzi è una prova inconfutabile del legame misterioso che tiene vicine due anime diverse; pertanto nei testi centrali della raccolta si avverte quasi una contemplazione estatica di questa difficoltà di comunicazione: “lascerei un senso alle pause” indica proprio la volontà del poeta di riavvicinare silenzio e linguaggio. Altra materia muta è la memoria: nel rimpianto e nel rimorso le parole vengono “a cercarmi di notte” e quasi per dispetto non significano, appaiono sbiadite, confuse, avvolte da un oblio frustrante (“Verrai insonne nel buio / come un vecchio rimorso”). È qui che appare un’invocazione quasi disperata verso un “Tu” che si dimostra a volte ostile altre accogliente: “Sciogli, ti prego, la mia ira / la mia voce nel tuo silenzio, cogli”. È il desiderio ardente di un cuore irrequieto, che torna sempre negli stessi luoghi, quasi ossessivamente rivede gli stessi oggetti, le stesse fasi lunari, per cercare un elemento di continuità in sé stesso, nella consapevolezza heideggeriana che al parlare “autentico” giova tanto il linguaggio quanto il silenzio. È il dualismo irrisolvibile delle cose umane: nelle poesie de La misura del silenzio le pause dettate tra un testo e l’altro – e all’interno di uno stesso testo attraverso l’uso preciso della punteggiatura – ci dicono che l’arte nasce da un ripiegamento muto e sacrale nel proprio Io che poi si tramuta in versi e messaggi, il cui valore e la cui tensione comunicativa è strettamente dipendente dai silenzi che li precedono. Davide Cuorvo definisce, dunque, con questo “esilio / a doppia corsia” l’eterno assillo: il poeta deve prestarsi ad un attento ascolto dei suoni di natura per poter riconoscere il bello che c’è in essi, l’armonia sottesa ad un’apparente illogicità, arrivando così a godere senza angosce del silenzio. Quest’ultimo, infatti, non è altro che la piena sublimazione dei suoni percepiti, la traduzione impossibile di “un urlo” quando “acquista forma concreta”.