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Atelier intervista Mario De Santis: “Se la soggettività del poeta prevarica la poesia…”

foto mia 2Atelier intervista Mario De Santis:
“Se la soggettività del poeta prevarica la poesia…”

1) Soprattutto nelle ultime generazioni sta emergendo in questi giorni il nodo di cosa si possa considerare poesia. Nella tua esperienza, è possibile unire tutto in un unico grande contenitore? E, in generale, tra valenza formale e valenza sostanziale è possibile un accordo?

Avendo acquisito più competenze, da quella tecnica con gli studi sulla poesia contemporanea, dagli anni 80, in poi, a quella anche storico-giornalistica, con le dinamiche culturali e sociali del nostro paese, a cui mi dedico dallo stesso periodo dell’Università, mi sono fatto l’idea che stiano cambiando i parametri interpretativi di quella disciplina che chiamiamo “estetica” e che regge anche implicitamente ogni giudizio sui testi. A maggior ragione se si ha bisogno di rifondare ogni volta il concetto di una forma, un genere, anche se i generi superati, e che definiamo col sostantivo “poesia”. Sarò lungo per una risposta, ma breve rispetto a quanto sarebbe necessario. Si oscilla sempre sull’altalena di quel che Matteo Fantuzzi chiama qui su Atelier “valenza sia sostanziale che formale”, ma spesso è sempre un affermarsi di “forme” anche quando si rifiutano tutte le forme, in alcuni casi di poetiche radicalmente “anti-formali”. Furono contro una forma dominante tutti i poeti del secolo, lo erano i futuristi, le avanguardie, perché ne facevano proclami, ma lo fu più radicalmente ancora Ungaretti e tutti i lirici lo sono stati, poeti che rompono le forme. Anche il “ritorno alla forma” lo è, se si considera la dominante socioculturale di un canone. Lo fu Milo De Angelis nel 1976 e poco dopo in altro modo Valerio Magrelli rispetto alla dominante politica o neoavanguardista che occupava la scena letteraria. Sul piano delle rotture “radicali” metto un evento che si celebra in questi giorni, ed è il Festival di Calstelporziano dell’estate del 1979, ovvero quello in cui si è inaugurata la stagione del “pubblico” (in generale e non solo della poesia come lo chiamarono Cordelli e Berardinelli)e del fatto che nell’espressione di sé “ognuno” vale quanto “l’uno” che è sul palco – a suo modo quella poesia di quei simpatici, ma dilettanteschi sciamannati che salirono sul palco a parlare dei loro “bisogni” interrompendo i poeti, è scomparsa, ne ricordiamo però di quell’evento la “sostanziale” e collettiva rottura e crollo (anche non metaforico) del cosiddetto gotha della poesia che era riunito sopra. Oggi è in atto il compimento di quell’evento e non solo in poesia. C’è un gotha anche oggi? Non lo so. Ci sono centri di potere come Istituto, a volte dipartimenti, editori e alcuni festival. On necessariamente come è stata chiamata nella polemica di questi giorni è una “gerontocrazia”. In ogni caso al contrario, vedo anche, come allora su palco i giovani Cucchi e De Angelis, dei poeti under 40, attivi e con, a volte, buon riscontro – ma gruppi e piccoli poteri ci sono sempre, anche tra i giovani, purtroppo, fenomeno ciclico, ma la poesia italiana di oggi è variegatissima, molto più che in passato quindi non c’è un ritratto univoco possibile).

2) Il pubblico della poesia oggi va inseguito o va portato ad una maggiore consapevolezza?

Il pubblico oggi ha un grande potere, l’epoca del marketing e del populismo ne sono i due esempi. Si seguono gusti, indicazioni, istinti. L’epoca moderna, è stata dominata da spinte dal basso interpretate diversamente: chi le ha assecondante, chi ha provato a mediarle. Le migliori conquiste culturali anche di massa sono quelle nate dal mix tra spinta dal basso al cambiamento e mediatori che la interpretavano e in qualche modo proponeva, con la loro consapevolezza, un prodotto che potesse anche piacere. Ritengo l’epoca dei Beatles l’esempio fulgido: c’erano musicisti, studio, menti musicali, mediatori. Gli artisti sono dei mediatori che devono giocare tra sorpresa, scarto dalla norma e però anche dialogo con la langue diffusa. Certo dipende dal livello culturale e in un certo senso anche dall’affidamento del pubblico ai suoi mediatori. (Cosa che oggi è contestata, da “Amici” di Maria alla Vivinetto, perché guai a esercitare la critica verso i giovani aspiranti artisti – c’è subito rivolta e messa in discussione “ma tu chi sei per dirlo?” – lo direbbero anche degli aspiranti papi a Gesù, sono piuttosto pessimista al momento, la massimo c’è il modulo “Greta” uno-di-noi.) Ripartiamo da Baudelaire. L’epoca “del pubblico” porta in primo piano quella che Mazzoni, nel suo famoso volume sulla lirica moderna, chiama il “mandato sociale” del poeta. Chi lo decreta il Mandato sociale ovviamente la parte di società che legge e legge secondo dei canoni, dei gusti. E’ per questo che “mandato sociale” non va letto solo nei suoi caratteri sociologici ma mescolato a una definizione estetica e formale di poesia, determinata dalla fruizione, non assoluta. Quando Mazzoni introduce nel libro il concetto inizia col fare l’esempio di Baudelaire. Il poeta fondatore della lirica moderna, in due differenti edizioni arrivò a venderne circa 2300 copie, mentre nello stesso periodo Eugene Sue aveva venduto complessivamente centinaia di migliaia di copie, tanto che l’autore s’era comprato la sua stessa casa editrice – sono tutti dati che trovate in Charles Baudelaire. “Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato” di Walter Benjamin nella fondamentale cura di Agamben. Ma al tempo di Baudelaire più o meno, la società borghese che leggeva testi letterari era LA società borghese tutta, che, insieme a tutto quel che si può fare a teatro, nella lettura trovava l’unica forma di intrattenimento, oltre che di apprendimento. Era una società ristretta nei numeri, ma quel segmento aveva la pratica della lettura di testi letterari e poetici come pratica diffusa, accettava l’idea di affidarsi e dare mandato a figure di mediatori. Lo stesso vale per chi proponeva testi letterari. Ovviamente poi bisognava leggere. Il dato importante è che il livello di scolarizzazione, poiché era ristretto, era anche mediamente più alto. Oltretutto la letteratura era parte di un consumo quotidiano di intrattenimento. La gran parte delle persone che sapeva leggere, leggeva testi letterari. (certo, più Sue che Baudelaire, ma leggevano quasi tutti ed erano in grado di rifiutare Baudelaire partendo da loro canoni di lettori che Baudelaire voleva rompere – in poesia era praticato e apprezzato il parnassianesimo, che Baudelaire stravolge). Data questa premessa di presenza della letteratura nei “saperi” correnti, che quando un poeta come Baudelaire cambia forma lirica, crea un dissenso poetico, formale, quindi anche culturale quindi sociale, quindi politico. Lo fa grazie al fatto che la larga platea dei leggenti era anche una platea di lettori di letteratura. Egli crea un dissenso e una rottura, e tutte le tensioni letterarie – che diventano culturali e speso politiche – che conosciamo sono legate a questa ricezione che noi classifichiamo come “destini generali” ma in realtà sono dovuti a azione specifica di settori sociali ristretti; ristretti in senso assoluto, ma “generale” in senso relativo, (insomma per dirla in modo semplice, va a scuola il 30% della popolazione ma quel 30 legge all’80% libri di letteratura). Ecco, per tutto il XX secolo è stato più o meno così in Europa, fino agli anni ’60. Gruppi sempre più allargati, ma sostanzialmente appartenenti a ceti borghesi, medioborghesi, accede all’istruzione, a una buona istruzione, è in grado di leggere un classico, ritiene la cultura cosa importante. Nel frattempo era esplosa nel dopoguerra il consumo di massa di cultura pop, ci sono altre forme di fruizione estetica – cinema, canzone, in parte la tv, ecc. Poi c’è stato il ‘68, ma soprattutto il ’77 che cambia tutto e cambia anche la poesia.

3) Poi nel 1979 arriva dunque l’era di Castelporziano che citavi prima: hai accennato al fatto che oggi assistiamo a una riproposizione di quelle dinamiche tra pubblico e autori, ci spieghi in che senso?

Come provocazione io amo dire che a Castelporziano si inaugura l’era di “Amici di Maria de Filippi”. E la drammaturgia è la stessa. Autori nuovi,immaturi, dilettanti, che vogliono salire sul palco e contestano la “giuria” dei competenti o degli artisti già-consolidati, col pubblico da arena a fare da giudice, e che non giudica il migliore ma il più simpatico (Castelporziano sarà ricordato più che per “Urlo” di Ginsberg, per l’urlo “è pronto il Minestrone!!” che fu portato col pentolone sul palco – è l’EcceBombo della poesia italiana, da allora fino a Catalano è stato tutta una pietra rotolante.). C’era folla su quella spiaggia a sentire i poeti, ci fu un passaparola. Dopo due giorni erano migliaia. Oggi si direbbe “un evento di successo”. Il grande pubblico che ascolta i poeti eccc. Come è noto la storia è più tragicomica e i filmati sono lì a documentarlo. La storia della poesia italiana si presenta anche essa la prima volta in forma tragica, nel 1975, con l’assassinio di Pasolini, e la seconda volta in forma grottesca, nel 1979 con Castelporziano. L’era di Castelporziano arriva dopo il 1976-77, anno in cui aumenta di molto l’ingresso all’Università, la prima vera stagione del compimento dell’istruzione di massa voluta dalle riforme degli anni 60. Era molto per i numeri ancora bassi dell’Italia, ma assumiamo da lì a poco la struttura di altri “mercati della cultura”, pian piano si inaugurava la divaricazione tra la letteratura che piace ai “competenti” e quella che leggono i “leggenti” istruiti, acquirenti di libri, in cerca di un prodotto medio. Si allargava l’istruzione pubblica, si prendevano più lauree, ma terminava una società 8/900 identificabile in classi, si avviava verso una società di massa, più osmotica dal punto di vista dell’immaginario e dei consumi culturali. (Ricordiamo però che siamo ancora oggi nel 2019, il paese con meno lettori (39%) assoluti e il paese con meno lauree in Europa e in generale se vogliamo ancora farlo sopravvivere nel sistema occidentale.).

4) Quando inizia ad allargarsi la platea dei leggenti?

Dopo il ’68, col balzo nel 1980. Si possono leggere per “casi” editoriali. Due grandi casi in epoche di “allargamento della platea dei leggenti”: immediato post ‘68, Porci con le Ali, oggi dimenticato se non per una storia del costume, e La Storia, di Morante, nel 1974 stroncato all’epoca dai più, oggi un grande classico. Ma siamo ancora dentro un pubblico che legge, inizia a leggere appena scolarizzato, sia per “dovere” politico – legge o almeno compra il libro e dà un’occhiata – ma sostanzialmente, fino a prima della metà anni 70 all’università andavano pochi figli di classi di lavoratori subalterni. C’era molta borghesia, come hanno stimato gli storici il 68 lo hanno “fatto” 300 mila giovani unaminoranza demograficamente parlando. Nel 1980, dopo un anno da Castelporziano l’Italia ha scavalcato i movimenti giovanili del 77 che sono invece il primo segno di allargamento culturale reale, dei ragazzini che nati a metà anni 50 hanno frequentato la scuola dell’obbligo e puntano al “pezzo di carta”. Di conseguenza, l’Italia conosce un “allargamento della platea dei leggenti” sotto la spinta di un innalzamento del livello di istruzione. C’erano stati già segnali prima, con la mondadori e gli Oscar in edicola, negli anni 60, e l’editoria ialiana si era già modernizzata, anche se non mancano errori (Mondadori rifiuta di pubblicare Wilbur Smith, Stephen King per dire) ma è in attesa del suo pubblico, che sboccia invece con la Collana harmony nel 1980 e con il primo bestseller di un’editoria rinnovata (non dimentichiamo che Berlusconi sta per fare il suo ingresso) con cui l’industria editoriale mostra il suo volto di oggi, pochi anni prima della saldatura “televisiva”. Era Il Nome della Rosa, non a caso scritto da un esponente a suo modo del gruppo ‘63 come Eco, che cercava la sua strada per conciliare la letteratura di genere e quella alta. Però è già in atto una divaricazione e non è detto che anche un laureato in lettere abbia voglia (e dico io magari sappia) leggere, in quegli anni la poesia di Pagliarani o Sereni. E infatti, nel frattempo la poesia – che pure ha in quegli anni momenti alti, di partecipazione – nasce la rivista Poesia di Crocetti, che va in edicola e arriva a toccare le 55.000 copie mensili, c’è ancora Milanopesia e i festival di Roma ecc. – ci si avvia alla progressiva riduzione dl lettori paragonati al numero dei “leggenti” perché il famoso pubblico potenziale che accorre a migliaia agli eventi (appunto come a da Castelporziano in poi, oggi cliccando sui social mi piace) poi si guarda bene dal comprare o dal leggere poesia (ne sono stato testimone per alcuni anni con un fenomeno che si chiamava “Parole Note” posso assicurarvi che persone che accorrono a sentire leggere un buon/bel lettore poesie di Neruda e si commuovono poi neppure Neruda comprano, figuriamoci altri – e così oggi ancora un poeta riesce a vendere anche 2000 copie, come Baudelaire ma dopo un secolo in Europa è cambiato tutto. E in Italia ancora di più, paese che ha varato tardi la riforma della scuola dell’obbligo nel 1963, dopo dieci anni dal varo della Tv pubblica nel 1954 – dove Eco era parte, tra l’altro – paese che sconta anche una sostanziale assenza di quella diffusa società borghese più forte in Francia Gran Bretagna Germania ecc. e ancora oggi il nostro pubblico ha una debolezza strutturale, data anche dalla scuola che in tutto questo per la poesia ha fatto poco, in 40 anni.

5) Come si inserisce in questo contesto una possibile discussione intorno al tema tra “forma” e “anti-forma” oggi?

La discussone tra forme e anti-forme (che si candidano ad essere nuove forme del futuro) va fatta alla luce di questo discorso, secondo me e dunque – per quanto anello anche debole in Italia, imprescindibile ovvero proprio Il Pubblico. Non per assecondarlo, né punirlo, ma perché ogni discussione va fatta tenendo conto di quale platea dei “leggenti” (capaci in teoria ma meno addestrati o propensi) o “lettori” (consapevoli, con almeno un buon bagaglio di letture poetiche alle spalle) abbiamo davanti. Paradossalmente ci siamo interrogati per decenni sull’”Io” in poesia, ma ci simo dimenticati “lEssi” (una miopia che somiglia a quella politica). Tutti puntiamo ad avere più lettori, ma per farlo dobbiamo allargare il nostro discorso ai “ leggenti” prendendo una decisione anche stilistica. Che come diceva Barthes è sempre anche etica, oltre che estetica. Nel frattempo infatti i leggenti hanno sempre più – lo dice molto bene ancora Mazzoni – dato da diverse generazioni (sempre più o meno post Castelporziano) il loro “mandato” poetico ai cantautori. E oggi con il rap e le sue derive, modalità che ha una grandissima possibilità di ricchezza testuale, dunque è pperfetto anche per temi complessi, per un lavoro sulla stessa forma del testo-con-musica, che formalmente sono assimilabili al testo poetico se visti solo dal punto di vista del Ritmo, rime, metrica ecc. Tutavia la poesia è anche un suo campo semantico-formale e topico, molto specifico e dialoga anche all’interno della sua tradizione per inserire semantiche, non perché orto chiuso, ma perché determinate prassi e certi bagali metaforici ad esempio traslano – come del resto ci sono in qualsiasi forma estetica: oggi non fai il cantautore se non conosci Paoli o De Gregori fino a Calcutta o Brunori. Non si comprende perché se si scrivono testi in poesia invece si può “non conoscere” la storia della poesia recente – è una forma di permissivismo pedagogigo deleterio, che ancora una volta ha nella scuola e nella pedagogia i responsabili: sembra un discorso conservatore non lo è: tutte le rivoluzioni devono conquistare il palazzo di inverno e farlo proprio, non devono né abbatterlo né ignorarlo né accamparsi in brutte tende.
La poesia se vuole partecipare anche alla trasformazione culturale della società, se vuole avere un ruolo devi porsi il problema dei “leggenti” ma rimanendo all’interno di quella scia che è stata la scrittura di poesia così come la sua comunità di lettori e critici e poeti l’ha definita, nelle varie opposte poetiche, negli anni. Questo anche se si allarga la platea. Al tempo stesso, si deve poter ragionare anche a partire dalla capacità di ricezione che “essi” hanno del nostro “io” o “non-io”, ovvero di un testo letterario. Preferiscono quello più affine al cantautorato? Oggi rap? Per “mandato sociale” a loro affidato, come dice Mazzoni? Può darsi. Non è necessario cedere a quella forma, però perché va trovato un pubblico che possa fruire entrambi, la poesia e tutte le per-formatività testuali possibili. Un esto “musicato” (lasciatemi la licenza di essere generico) può aver grande consenso ed essere un buon testo oppure essere un testo più superficiale ma con grande appeal (le canzoni dei cantautori o dei rapper oscilla sempre e come scrive ” “un testo di De Andrè, per fare lo stesso esempio di Giovanetti, nel contesto musicale appare splendido ma alla lettura silenziosa, dal punto di vista retorico, diventa una “ovvia schifezza”).
Non entro ora nella discussione tecnica sui testi, sullo slam, da dove è nata una recente polemica in rete sempre a partire da un editoriale di Fantuzzi, su cosa sia ecc. Matteo ha ragione nel dire che alla fine tutti noi che litighiamo dalla varie posizioni siamo più vicini di quel che sembra. Tutto quel che ho detto fino a ora, era per sostenere che anche le nostre discussioni devono per forza augurarsi una crescita di “lettori” rispetto allaplatea di leggenti (o ascoltanti) più consapevoli, altrimenti si rischia di ragionare fuori dalla realtà e pensare che tutti i nostri interlocutori-lettori ci somiglino, oppure al contrario cediamo le armi del testo e scriviamo “per piacere ai leggenti”. La discussione oscilla, come dicevo all’inizio, tra quella che chiamerò “estetica-post hegeliana” ovvero una discussione sul valore estetico “in sé” di un testo (ma la facciamo tra noi che abbiamo letto tutto) e una “estetica della ricezione” che considera il canone non stabilito dall’alto ma alla fine da come viene recepito “in basso”. Qui bisogna essere cinici e realisti. Per fare un esempio, Di Ruscio e il Sereni de La visita in fabbrica, che sono distanti per molte cose, compresa la biografia, e spesso nelle discussioni tra “consapevoli” sono anche messi in opposizione, ecco, di fatto Sia Di Ruscio che Sereni li leggiamo solo noi, pochi addetti ai lavori, che ci accapigliamo, perchè gli operai vanno a sentire Fedez o Jovanotti. Allora ecco che il dato ritorna ad essere solo formale. (Almeno ripeto tra chi parla di poesia da posizioni di poetica differente, ma di simile “competenza”) Tutto diverso è se vogliamo far entrare il dato del “pubblico” che cambia l’impostazione estetica della discussione. Ma pure quella è relativa. Con questo non voglio dire che se per il pubblico Jovanotti è un poeta, allora è poeta. Dico il contrario, ma avverto in cui contesta la forma lirica, la poesia tipografica, come un vaticinio a parlare in nome delle masse che – consumando il rap, aderiranno in massa alla poesia fatta negli slam poetry ecc. Credo di no, che succeda come succedeva a me con Parole Note, grandi numeri di spettatori, piccoli numeri di lettori. Ma certo tenendo conto pure che al pubblico sempre dobbiamo tornare. Ancora una volta, dobbiamo essere dunque mediatori, anche se il pubblico non ci vuole più.

6) Relativismo e consenso del pubblico: quale il rapporto? Siamo ancora schiavi della “casalinga di Voghera”?

La casalinga di Voghera oggi è al governo o ha 100 mila follower e se pubblica un libro vende più di tutti i poeti messi assieme. Se prima l’ossessione era “abbassarsi” verso un pubblico poco colto, oggi il bagaglio culturale non conta e in più siamo tutti sullo stesso piano di comunicazione (su facebook c’è l’autore raffinato e l’instapoet che fa schifezze banali da 100 mila like. . Che sia un bene o che sia un male? Non lo so, sinceramente, io ho una storia personale che mi fa esssere ambivalente – vengo da una famiglia di contadini del Lazio, inurbati a Roma negli anni 50, mio padre muratore, mia madre donna delle pulizie. Quinta elementare per entrambi. La casalinga di Voghera ai tempi di arbasino ra la sciura piccoloberghese, era più ricca di noi, quindi le cose sono molto cambiate e se io oggi posso sembrare “snob” a fare questi discorsi, è per un paradosso. Cito me stesso perché credo sia storia comune e di molti, figlio di un babyboom molto simile del passaggio dall’analfabetismo contadino dei miei nonni, alla laurea. Pur essendo io figlio dell’ascensore sociale, proprio per questo difendo la necessità di passare da un piano all’altro, ovvio, sono di sinistra nella carne, oserei dire. Ma pure sono per la consapevolezza che i vari piani di competenza, di coscienza, di profondità, sono differenti e costa fatica salire,se non con lo studio accademico, certo con uno studio e pratica personale, e per poter dire e avere competenza, bisogna salire, anche con l’ascensore…Tradotto per la poesia: non è che se sei al primo piano, con un diploma di scuola superiore e hai letto la Merini, o Evan, e poi scrivi versi e siccome hai follower o la tua storia o la tua persona piace, automaticamente ha realizzato un’opera poetica…Così, bisogna continuare ad esercitare il giudizio critico con tutto il bagaglio di sapere di cu anche noi ex-analfabeti ci siamo appropriati (il palazzo d’inverno della critica letteraria che abbiamo conquistato con lo studio). Se leggo da Genette a Mengaldo, Segre, Citati o altri, conquisto un piano di consapevolezza di gusto, di bagaglio anche tecnico che prescinde dai gusti e dalla poetiche. E lo esercito. E allora leggo un poeta debole, immaturo, privo di stile, ne faccio un giudizio negativo ed ecco subito…Castelporziano…o amici di Maria. Questo esercizio provoca la rivolta. Come ho cercato di spiegare , ho diviso tra i pochi che leggono con cognizione letteratura e i molti che leggono con più spontaneità, leggenti. Magari leggono Merini Neruda, se leggono poesia. Oppure si appassionano molto al contenuto di cose che vanno a capo con giocosa ironia (Catalano) modello standup comedian più che poesia. Lo stesso vale se il contenuto è sofferente – ho un giudizio severo anche sul posto che dovrebbe occupare la Merini, che ha fatto alla fine spettacolo della sua sofferenza, ricordiamolo, al Costanzo Show. Ebbene c’è un caso come quello di Vivinetto su cui ho espresso personalmente sul mio blog, molte riserve, sulla qualità della scrittura, non adatta neppure a esprimere la complessità della sua esperienza non facile e di tutto rispetto. Aveva urgenza del dire, l’ha detto, di fretta. Apriti cielo. Io credo in quel caso abbia vinto la poesia “sostanziale” ma come per Merini, è un danno che si fa alla poesia tutta. Ovvio che sono consapevole di essere in minoranza. Adesso ha vinto pure il Viareggio: ma resta un caso emblematico della duplicità critica in cui siamo schiacciati. In questo caso la ricezione è allargata, da parte del pubblico, dato che il suo poemetto tocca una materia toccante e sentita, nata dall’autobiografia (non diversa però in teoria da chi come dice Fantuzzi, fa poesia del “parlare della mia dieta”). Ma la poesia deve rimanere, se pur con l’occhio ai leggenti, un’attività che dice il suo senso dalla “forma” come da Baudelaire in poi è accaduto.
Su Vivinetto ci sono giudizi di critici e poeti positivi, che per me sono stati troppo generosi e spesso “ideologici” (è ovvio che la pubblichi Buffoni) ma ovvio ha ricevuto in questo caso consenso “di pubblico e di critica” come si dice. Avrei torto io, dunque, ci sono lettori competenti, ma resta per me un testo che pur partendo da una intuizione importante sulla trasformazione della soggettività nel corpo e interiore, lo fa con stilemi formali spesso acerbi e quasi dilettanteschi, altre volte no, ma in maggioranza si, rendendolo scostante e incerto. E’ materia di un romanzo, semmai, e non a caso la Rizzoli le ha fatto un contratto e passerà alla prosa. Il romanzo ha accettato editorialmente una sua “forma di medietà” linguistica e stilistica. La poesia resta l’unico terreno di sperimentazione, di lavoro sulla lingua e sul linguaggio, va mantenuto questo punto, mediato si col “pubblico”. Per questo penso che se visto da ciò che io penso sia poesia, complessivamente il suo libro, pur giudicandolo tenendo conto della possibilità di “dare voce” a una storia, a un “Io”, lo trovo limitato come libro di poesia, è il testo di una persona ancora non maturata sul piano poetico, ma con una grande urgenza del dire, proprio come i ragazzi che salirono sul palco di Castelporziano coi loro bisogni. Il bisogno di poesia però va coltivato, accresciuto, con studio e applicazione, e non è da confondere l’urgenza di dire “il bisogno in poesia”.