Atelier 83 – Editoriale: “La necessità di una comunità recettiva”

A 83

 

Atelier 83

Editoriale

La necessità di una comunità recettiva
di Giuliano Ladolfi

 

Di solito l’immagine del poeta è associato all’idea del pensatore solitario che nella propria cameretta o di fronte alla natura entra in quello stato di grazia che lo spinge a “vedere” quello che gli altri non vedono, a soffrire situazioni uniche, assunte a simbolo dell’intera specie umana. Qui l’artista si trova quasi sempre in una solitudine ontologica, in cui crea il capolavoro, anche se, specie nella musica, troviamo esempi di composizioni collettive simultanee.
In realtà, noi siamo la fioritura di un seme, germogliato su un terreno, cresciuto su un albero, nutrito dalla pioggia e dal sole, colorato dalla luce, cullato dal vento. Il fiore è unico, ma molteplici le componenti che ne permettono lo splendore.
Anche nell’arte non può non esistere una comunità che sostiene l’invenzione del singolo e che la recepisce. Se il fiore non producesse il polline per le api, non abbellisse il panorama, non fosse contemplato e ricercato dagli insetti, non spandesse il profumo per deliziare, sarebbe come una melodia scritta, lasciata in un cassetto e mai suonata. Inutile? Forse no, ma certamente improduttiva. L’arte è un atto “fenomenologicamente” sociale. Anche la poesia lirica (nel senso più personale del termine), il dipinto astratto, se producono un significato, per quanto originale, appartengono al dominio della storicità e della comunità, in cui sono stati creati.
I grandi poeti crescono sulla tradizione letteraria, sullo scambio di gruppo. Pensiamo soltanto all’Atene di Pericle, al circolo di Mecenate, alle corti medioevali e rinascimentali, al sodalizio dello Stil Novo, ai Caffè letterari, ai raduni degli Ermetici, per limitarci ai nostri confini. Deve esistere una comunità che da una parte “forma” e che dall’altra “recepisce”. Tocca al genio sbocciare in modo originale.
Oggi purtroppo non esiste più, se non in casi eccezionali, la comunità che permette lo sbocciare del seme poetico. Dagli Anni Settanta del secolo scorso si è spezzato il circolo virtuoso tra poeti, critica e pubblico. Abbiamo ampiamente documentato e motivato il fenomeno. Non è il caso di “piangersi addosso”. La nostra rivista considera opera fondante proprio “contestualizzare” storicamente, e cioè all’interno di quest’epoca di passaggio dalla Modernità all’Età Globalizzata, la cultura e l’arte, all’interno della quale collocare la scrittura in versi. Non c’è bisogno di essere marxisti per comprendere le interconnessioni tra società, economia, ideologia e manifestazioni artistiche.
La confusione che coinvolge anche i princìpi critici contribuisce a distruggere qualsiasi parvenza di comunità recettiva.
Comunità, pertanto, non implica affatto il fenomeno grazie al quale esistono centinaia di migliaia di persone che scrivono versi, che pubblicano su carta o su internet, che passano le proprie composizioni agli amanti o alle persone care. Comunità significa riconoscersi in un orizzonte comune, non percorrere un’identica strada. Del resto, la crisi della cultura occidentale non poteva non riflettersi in questo settore, dal momento che abbiamo sempre sostenuto che la grande arte è la “rivelazione” più autentica del periodo in cui vive un autore.
E manca una comunità sia perché manca il filtro della critica sia perché manca una formazione sulla poesia contemporanea da parte della scuola a livello superiore, universitario e postuniversitario, senza contare che «il sostegno economico dei media e del libero mercato, l’opportunismo della distribuzione potrebbero essere più dannosi per l’arte di quanto lo fossero i régimes censori del passato» (Steiner), per il semplice fatto che oggi il potere non sta più nelle mani della classe politica, ma della casta economica.
Oggi non manca la comunità “produttiva”, manca una comunità “recettiva” capace di decifrare un prodotto poetico, capace di superare i frusti schemi di un’avanguardia stantia, di un romanticismo consunto, di un descrittivismo asettico, di un formalismo apatico. Nella società “emporiocentrica” i segni sono diventati pochi e quei pochi sono indistinti, poiché anche la recezione e l’interpretazione rientrano nella natura dei fenomeni storici e sociali. Più volte abbiamo argomentato come nessun giudizio sia imparziale o assoluto e come sia sempre soggetto a correzioni o a revisioni, sempre calato in un contesto che conferisce senso e significato.
«Atelier» si è sempre prefissa l’obiettivo di creare sia una comunità “produttiva”, che ha visto un esempio nell’Opera Comune, sia una comunità “recettiva” per intensificare l’azione di riavvicinamento fra umanità e linguaggio, fra poeta e lettore, e per colmare il divorzio tra parola e realtà, consumato negli ultimi decenni dell’Ottocento, le cui conseguenze sono visibili ancora oggi.
Del resto, ogni epilogo è un prologo.

Giuliano Ladolfi

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