Alessandro Niero – “Versioni di me medesimo”

niero cover

Alessandro Niero, Versioni di me medesimo, Transeuropa, 2014
lettura di Massimo Natale

 

 

Questo libro di versi di Alessandro Niero – il terzo dopo Il cuoio della voce (Voland, Roma 2004) e l’intreccio di versi e prosa che costituiscono A.B.C. Chievo (Passigli, Firenze 2013) – è inaugurato e suggellato da due sezioni, «Il signor Czarny» (anticipata nel volumetto Poesie e traduzioni del signor Czarny, L’Obliquo, Brescia 2013) e «Versioni», che rinviano molto chiaramente – specie l’ultima – all’altra ‘mano’ dell’autore, al suo lavoro di studioso e traduttore di poesia, anzitutto russa. E il rimbalzo, immediato, sarà infatti al titolo intero della raccolta, alle ‘versioni’ di se stesso che Niero propone a chi percorra le pagine di questa plaquette. Per entrare in scena l’io ha bisogno, qui, di una maschera, di un lasciapassare, cui dà la forma di un personaggio-controfigura: Il signor Czarny. Il che dice già qualcosa di un io lirico effettivamente multiforme, fra le cui qualità ce n’è una che conta forse più delle altre: la ritrosia. Narciso deve scendere a patti con Pudore. Ed ecco allora che il personaggio-Czarny, o gli stessi poeti tradotti al chiudersi della raccolta, avranno anche il compito di alleggerire le responsabilità di questo io incerto, di sviare l’attenzione del lettore, o almeno di frapporre un velo fra chi mette pur difficoltosamente a nudo il proprio cuore e chi sceglie di ascoltarlo-osservarlo.
Ma chi è il signor Czarny? È una sorta di osservatore disincantato della realtà, un classificatore e interprete del reale, sia questo il riflesso dei propri moti interiori – l’‘invidia’, le ‘inadempienze’, l’‘ironia’ di lui – o il racconto di qualche suo incontro o viaggio; oppure sia, il reale, soprattutto lo specchio dove si riflette un tema-cardine per il libro e il suo personaggio, ovvero il Tempo. Vero e proprio generatore d’ansia, con cui Czarny ha «un conto aperto», il Tempo è anche il tema-occasione che permette di delineare lo scacco esistenziale a cui è continuamente sottoposto l’io-personaggio, ritratto nei panni di chi tenti di «vuotare il mare col colino» (Il signor Czarny e il Tempo [I]); e nella direzione di un analogo senso di irresolutezza e scacco vanno versi come questi: «L’acqua passata è ancora nella macina, / ma Czarny ignora se sia grano o loglio» (Il signor Czarny e il Tempo [IV]), entro i quali il tempo fuggito sembra non tanto un nemico, quanto piuttosto un inevitabile compagno di strada, da accettare malinconicamente («Il signor Czarny vede gli anni / cucirsi ai solchi sotto gli occhi / e al pepe rovesciato sui capelli»; Il signor Czarny e il Tempo [III]). Per la figura del signor Czarny Andrea Afribo – che firma la postfazione al volume – ha già rintracciato una serie di padri o almeno di fratelli maggiori, da Monsieur Teste al Signor Cogito di Zbigniew Herbert al Signor Palomar di Calvino. E forse anzitutto di quest’ultimo capita, qua e là, di sorprendere qualche eco o suggerimento: si pensa al capitolo finale del Palomar calviniano,Come imparare a essere morto,quando si incontra il signor Czarny intento a rimuginare «che un morto è una cosa completa» (Le inadempienze del signor Czarny) ); e una domanda come questa di Palomar – «Il mondo meno lui vorrà dire la fine dell’ansia?», nello stesso capitolo finale – sembra perfettamente nelle corde di Czarny, nonché del Niero impegnato in Epifania bordigotta a raffigurare, più oltre, «un paesaggio / a cui non siamo necessari» (vedi Palomar: «Un mondo in cui le cose avvengono indipendentemente dalla sua presenza e dalle sue reazioni […]; che lui ci sia o non ci sia, tutto continua ad avvenire»). È evidente che, oltre a condividere segretamente un cognome, – Czarny significa ‘nero’ in polacco: cioè un N(i)ero quasi perfettamente riproposto o diciamo pure ‘ritradotto’ – l’io-personaggio e l’io autoriale si assomigliano comunque molto. Nella sezione successiva – «Trenitalia» – il soggetto è, del resto, di nuovo un osservatore, a registrare gli eventi di un mondo ancora più frugale: fatto stavolta non di concetti – come è spesso per Czarny – ma soprattutto di anonime figure e luoghi ferroviari (se il primo Niero aveva tra i suoi phares la nettezza lirica di Milo De Angelis, qui si pensa forse più facilmente a Valerio Magrelli, per l’importanza delle dinamiche dello sguardo, e per gli stessi suoi viaggi in treno, consegnati da Magrelli alle pagine della Vicevita).
Ma non tragga eccessivamente in inganno, questa tentata oggettualità descrittiva: dietro l’apparente ‘grado zero’ e la ‘sordina’ del personaggio-che-guarda, si potrebbe in ogni caso leggere questa raccolta – nella quale progressivamente la maschera di Czarny sparisce, e con questa si affievolisce la terza persona del ‘narratore’, virata a una più bruciante prima persona – anche come una specie di riconquista della propria biografia. O meglio: come un ritorno alla possibilità di dirla, la propria vita, di raccontare il proprio stesso, fragile io, così esposto al trauma anche minimo (e del resto da qui partiva il solito Czarny nel testo che apre il libro , Il signor Czarny definisce se stesso: «È comodo – gorgheggia – potersi dire: ecco, sono questo e questo»). Se si tiene conto di questa premessa – se si tiene per esempio conto del Czarny che vorrebbe «stipare neve dentro una parola» (Il signor Czarny e la neve), tentando di accordare così i propri moti intimi e l’immensa fenomenologia del mondo, di cucirli e esprimerli insieme – stupirà dunque molto meno incontrare ripetute tracce, fra questi versi, di un vero e proprio ‘romanzo familiare’ dell’io. Già il Discorso del signor Czarny sulle proprie fondamenta , in maniera pur schermata, poneva al centro il nodo dell’«origine» del soggetto, lasciando spazio alla figura della madre, ai suoi vagheggiamenti e alla sua «dovizia di particolari» (è da lei, oltre che da Palomar, che Czarny-Niero assorbirà l’attenzione ossessiva del dettaglio e una ripetutamente allusa ‘mania della perfezione’, l’incapacità nevrotizzante di «darsi al brivido dell’incompleto»?). Ma a campeggiare, nel cuore del libro, è poi soprattutto il lato paterno di questo ‘romanzo familiare’: al centro perfetto della raccolta si stagliano infatti le poesie di «Pater familias» (ed è proprio il Magrelli sopra citato a offrire qui l’esergo di apertura), immediatamente seguite dalla tenerezza delle «Ventuno poesie per Beatrísa Aleksándrovna», in cui è Niero ad assumere frontalmente su di sé, stavolta, la paternità, e a offrire i propri versi alla figlia Beatrice. Se le tre poesie al padre inclinano a tratti al tono – pur asciutto, senza sbavature – dell’invettiva o dell’accusa, importa soprattutto che sia il «silenzio» l’emblema-chiave, il legato ereditario del padre, un silenzio che è sintesi di un non-incontro, di una distanza incolmabile: «Occorrerebbe, invece, padre, una parola, / una poesia, magari, un taglio / a precipizio dell’idea o il suo contorno. / Che tu non pratichi. E io non ho parole / a ricalcare il muto» (Silenzio di padre). Se le si legge a partire da questa radice di mancanza, le poesie per la figlia saranno allora davvero l’altro volto di una medesima storia interiore. Da subito si affaccia, in esse, proprio il tentativo necessario di dire la novità della nascita di lei – «Lo so, lo so che non potrò racchiuderti / in tre parole-ampolle» (Prima) – o di festeggiarne l’arrivo con un «bacio di parole» (Primo maggio) ); fino al libero fluire di una scrittura che non ha più bisogno di imbrigliare il mondo e di riordinarlo, ma può semplicemente abbandonarsi alla gioia di una presenza: «e ho parole cui, per poco, non compete / prendere posizione, finalmente, / ma solo dire, dire solamente» (O Beatrice) È forse anzitutto in questa collana-dono di poesie a Beatrísa-Beatrice che si dà, per il lettore, la possibilità di incontrare o almeno intravedere la nuda voce della nuova maniera di Niero: di un poeta che ha imparato ad addomesticare il proprio potente impulso alla verticalità lirica – nascondendolo sotto la prosa orizzontale del mondo – ma continua a sentirne tutta intera la nostalgia. 

 

Massimo Natale si è laureato all’Università di Verona con una tesi sulla poesia di Giacomo Leopardi (Premio Leopardi – Centro Nazionale di Studi Leopardiani 2008). Ha conseguito il dottorato di ricerca fra l’ateneo scaligero e l’Université de Lausanne. Attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università di Verona, dove ha tenuto corsi di Letteratura italiana e di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Oltre alla poesia e al pensiero leopardiani (Il canto delle idee. Leopardi fra ‘Pensiero dominante’ e ‘Aspasia’, Marsilio 2009) i suoi interessi di ricerca si rivolgono in particolare alla ricezione dell’Antico fra i moderni (con Giuseppe Sandrini ha curato Gli antichi dei moderni. Dodici letture da Leopardi a Zanzotto, Fiorini 2010), al teatro tragico, alla poesia novecentesca. Ha dedicato saggi anche a Tasso, Foscolo, Sereni, Zanzotto. Collabora con Alias, supplemento culturale de «Il manifesto».