INGRID DE KOK – da “OTHER SIGNS”

DE KOKIngrid de Kok (1961) è una poeta e critica Sudafricana. Nasce e cresce nel Western Transvaal (ora Stilfontein). Si trasferisce a Johannesburg all’età di 12 anni, emigrando nel 1997 in Canada dove vive fino al 1984, anno che la vede tornare in Sudafrica. Lavora all’Università di Città del Capo ed è professore associato in studi “Extra Mural” coordinando convegni a livello internazionale. E’ stata consulente della Northwestern University dell’Università di Chicago. Ha inoltre sviluppato programmi per la scuola pubblica dedicati allo sviluppo di una cultura della lettura. E’ membro del PEN, del Festival d’arte nazionale Grahamstown ed è nel comitato del National Arts Council. E’ inoltre membro della South African Association of Canadian Studies. Esordisce nel 1988 con la raccolta Familiar Ground (Ravan Press, Johannesburg) cui seguono una moltitudine di pubblicazioni molte delle quali tradotte in più lingue tra le quali il giapponese. In Italia è reperibile Mappe del corpo (a cura di Paola Splendore; Roma, Donzelli, 2008)

 

Ingrid De Kok

da: Other Signs (Kwela Books, 2011)

traduzioni dall’inglese di Paola Splendore

 

 

Vocation

 dekok 01

I led myself here though the honeyguide helped.

There were other signs, as there always are.

Father’s compass to spin me around,

Mother’s messages in the air,

 

White arrows at crossoroads, painted by friends

Childhood’s morse, all seven senses,

Warning flares fired by strangers,

My country’s graves, its electric fence.

 

A backpack of songs, a map of words,

Even a rythming dictionary.

A bible, ten pens, watermarked paper.

Most things quite ordinary.

 

The stars of course were indispensable,

Also the moon, though sometimes a bitter pill.

And a little wind kept beating its veined wings

For the willow and me to bend to its will.

 

To find my way I told myself stories.

Ariadne’s helped but her silken twine

Encircles your ankles if you’re not careful.

And I am not lost, though things are winding down

 

To a once breathing house

On short-term lease

Where song, recorded lute,

Even pen’s scrape, have almost ceased.

 

From the crumbling roof

Only one sound left:

An owl’s indifferent hoot.

It swivels its head,

Tilts its tufted ear,

Casts its eyes

Into the dark

Watching, waiting, as it must,

 

For me and other singers,

Other necessary prey,

To find our way through the brush,

To shed our precision packs

 

Mile by last mile,

As we lead ourselves here

Back to the beginning and the end,

Silence, resting place.

 

 

All things considered

 

Not much more could have been done

That was done

 

Nobody culpable

Just normal indifference

 

It could have been worse

Everything ruined

 

Whole families buried

Long lines of refugees

 

Fires to extinguish

Floods to manage

 

Bone beds

Craters

 

Disasters on a bigger scale

Balanced against this

 

Small death

Almost weightless

 

All things considered

 

 

Haraga

           For Sandro, friend to many migrants

 

          Italy, 2009

 

You have come a long way.

Crossed frontiers, burnt documents,

buried your name before the passage.

Then you stripped your fingertips

which had touched mother, lover,

your land when it was kinder.

In boiling wax. Haraga: those who have burnt.

That pulse will alway now

beat deeper than the throbbling in your chest.

Only footprints and stories left

 

to trace your farawell steps

across high land, low land,

to leaking boat, airless container, barbed camp,

till you reached here, where

they badly want to know who you once were

in order to send you back.

Without ID you are nothing and everything,

litmus for another country’s acid test.

No rest now, blank slate, stateless enemy

of those whose lips and fingers can be read.

 

Xeno: foreigner, stranger, guest,

though my country hunts you down,

welcome to my hearth.

My friends will plead for you in court

but there is little we can do

for finger’s seared memory

and your frontier heart.

Until DNA traces you to

scarred city, dead kin,

this door is open.

Stay out, if you mistrust these words,

or come, however briefly, in.

 

 

traduzione dall’inglese di Paola Splendore

 

 

Vocazione

Ci sono venuta da sola ma la via del nettare mi ha aiutato.
Ci sono stati altri segni, come sempre ci sono.
La bussola di mio padre per darmi la direzione.
I messaggi in aria di mia madre,

Frecce bianche agli incroci, dipinte da amici,
Il codice dell’infanzia, tutti e sette i sensi,
Segnali di pericolo lanciati da sconosciuti,
Le tombe del mio paese, i suoi recinti elettrici.

Uno zaino di canzoni, una mappa di parole,
Perfino un rimario.
Una Bibbia, dieci penne, carta filigranata.
Oggetti ordinari per lo più.

Le stelle sono state indispensabili, certo,
Anche la luna, a  volte una pillola amara.
E un po’ di vento ha continuato a battere le ali venate
Piegando me e il salice al suo volere.

Per trovare la strada mi raccontavo storie.
Quella di Arianna mi è servita ma il suo filo di seta
Ti lega le caviglie se non fai attenzione.
E non mi sono persa, anche se tutto si è ridotto

A una dimora che un tempo respirava
Occupata per poco
Dove canzoni, il suono del liuto,
Perfino il graffio della penna, non si sentono più.

Dal tetto in rovina
Proviene un unico suono:
Il verso indifferente di un gufo.
Ruota il capo,
Inclina i ciuffi delle orecchie,
Getta lo sguardo
Nel buio
Guardando, aspettando, come deve,

Che io e altri cantori,
Altre prede necessarie,
Troviamo la  strada nella boscaglia
Ci liberiamo dei nostri zaini preziosi

Miglio dopo ultimo miglio,
Mentre veniamo qui
Di nuovo all’inizio e alla fine,
Silenzio, luogo di riposo.

 

 

Tutto considerato

Non si poteva fare più
Di quanto è stato fatto

Non è colpa di nessuno
Solo indifferenza ordinaria

Poteva andare peggio
Tutto distrutto

Famiglie intere sepolte
Lunghe file di rifugiati

Incendi da spegnere
Inondazioni da governare
Letti di ossa
Crateri

Disastro di più vasta scala
Di fronte a tutto questo

Una piccola morte
Quasi senza peso

Tutto considerato

 

 

Haraga
         Per Sandro, amico di migranti

         Italia, 2009

Sei arrivato da lontano.
Hai attraversato frontiere, distrutto documenti,
sepolto il tuo nome prima del passaggio.
Poi hai cancellato la pelle dei polpastrelli
che hanno toccato madre, amante,
e la tua terra quando era più dolce.
Nella cera bollente. Haraga: quelli che si sono  bruciati.
Quel fuoco sarà sempre più forte
Ora di quello che ti pulsa in petto.
Solo impronte e storie rimaste

a tracciare i passi del tuo addio
al di là dell’ altopiano, del bassopiano
fino alla barca che fa acqua, al container asfissiante, al campo di filo spinato,
fino al tuo arrivo qui, dove
vogliono a ogni costo sapere chi eri prima
per rispedirti indietro.
Senza documenti sei tutto e niente,
tornasole per la prova  di un altro paese.
Senza tregua ora, tabula rasa, nemico senza stato
di quanti hanno  labbra e dita leggibili.

Xeno: straniero, estraneo, ospite,
anche se il mio paese ti dà la caccia,
benvenuto a casa mia.
I miei amici ti difenderanno in tribunale
ma poco si potrà fare
per la memoria ustionata delle dita
e il tuo cuore di frontiera.
Fino a quando il DNA non ti riporterà
alla città ferita, ai parenti morti,
questa porta rimarrà  aperta.
Resta fuori, se non credi a queste parole,
oppure vieni, anche se per poco, dentro.


Ingrid de Kok (1961) è una poeta e critica Sudafricana. Nasce e cresce nel Western Transvaal (ora Stilfontein). Si trasferisce a Johannesburg all’età di 12 anni, emigrando nel 1997 in Canada dove vive fino al 1984, anno che la vede tornare in Sudafrica. Lavora all’Università di Città del Capo ed è professore associato in studi “Extra Mural” coordinando convegni a livello internazionale. E’ stata consulente della Northwestern University dell’Università di Chicago. Ha inoltre sviluppato programmi per la scuola pubblica dedicati allo sviluppo di una cultura della lettura. E’ membro del PEN, del Festival d’arte nazionale Grahamstown ed è nel comitato del National Arts Council. E’ inoltre membro della South African Association of Canadian Studies. Esordisce nel 1988 con la raccolta Familiar Ground (Ravan Press, Johannesburg) cui seguono una moltitudine di pubblicazioni molte delle quali tradotte in più lingue tra le quali il giapponese. In Italia è reperibile Mappe del corpo (a cura di Paola Splendore; Roma, Donzelli, 2008)

Paola Splendore è Professore Ordinario di Letteratura inglese all’Università di Roma Tre. Si occupa in particolare di letterature postcoloniali e di letteratura migrante. Tra le sue aree di studio e interesse spicca anche la rappresentazione letteraria della violenza nella narrativa scritta da donne. Ha pubblicato saggi sull’opera di scrittrici e scrittori indiani, sudafricani e caraibici. Varie anche le traduzioni e le curatele di opere di Virginia Woolf, del filosofo Raymond Williams, di J.M.Coetzee. Ha tradotto inoltre la poesia di Sujata Bhatt, Il colore della solitudine (Roma, Donzelli 2005), Ingrid de Kok, Mappe del corpo (Ibid., 2008), e Karen Press, Pietre per le mie tasche (Ibid., 2012), e curato con Jane Wilkinson l’antologia di poesia sudafricana Isole galleggianti (Roma, Le Lettere, 2011). Scrive articoli e recensioni per “L’Indice” e “Lo Straniero”. Collabora a Wikiradio.